Un dialogo
La musica era alta, direi altissima. La gente si agitava, sudata, ridevano tutti sguaiatamente, ammalati di una felicità fin troppo smaccata.
Erano anni che non vedevo così tanta gente insieme nello stesso posto e ad un occhio poco allenato come il mio sembrava proprio una gigantesca crisi isterica.
Nell'aria c'erano ormoni di ogni tipo, serotonina, ossitocina, tanta adrenalina... e i miei concetti di chimica o qualsiasi materia sia credo possano finire qui. Però sono parole che suonano bene, danno spessore al discorso.
Nemmeno l'aria era tranquilla, sembrava densa, pesante, quasi come se fosse nebbia, una nebbia fitta composta da sostanze chimiche che agitavano tutto. Se fosse stato un film la camera da presa si sarebbe mossa da un lato all'altro, come farebbe Scorsese, ma senza italoamericani di nome Paulie o Sonny.
Sembrava un terremoto, ma senza panico, un terremoto senza terremoto. Solo pura e semplice agitazione isterica data dall'improvvisa dose di felicità.
Era una festa e dopo due anni, forse era necessaria, o forse no, ma tutti volevano festeggiare. Io come sempre, come è sempre stato in vita mia per quello che riguarda le feste perlomeno, io lì non ci volevo nemmeno andare ma è finita che ci sono finito dentro.
C'era lei che si muoveva tra la folla, il vestito che aveva non lo ricordo, si stagliava tra la folla e ballava fuori ritmo, o forse era l'unica che andava a ritmo e tutti gli altri si muovevano a scatti, non lo so, non mi ricordo bene, mi piace pensare che sia andata così però, è una versione che aderisce perfettamente alla mia visione delle cose.
La musica era davvero molto alta, la più alta che avessi mai sentito.
Come detto, lei attirava l'attenzione come fosse stata illuminata da un riflettore, Dante Alighieri sicuramente avrebbe potuto descrivere meglio la scena anche se ai suoi tempi i riflettori non esistevano. Si avvicinava a me e io non avevo poi tutto questo coraggio di dire qualcosa ma era davvero bellissima. Aveva lo sguardo divergente tipico del quarto Gin Tonic, la palpebra destra che andava chiudendosi come una serranda in piena estate. Il colore del vestito non lo ricordo, però le scarpe erano chiare, questo sì.
La musica era esageratamente alta e la cassa picchiava sul mio povero diaframma.
Lei mi guardava e mi sorrideva, mi sorrideva come se mi conoscesse, e parlava, parlava, ma non sentivo niente, niente di niente, sorridevo e facevo cenni con la testa, e anche io parlavo ma non mi sentivo e lei sicuramente non sentiva me, però sorrideva. L'inizio se non altro era promettente.
Muoveva la bocca in modo strano, probabilmente biascicava, e probabilmente biascicavo anche io, anzi io biascicavo sicuramente.
Sarà passato un lasso di tempo infinito e lei sembrava felice, qualcuno la aspettava perché si guardava spesso attorno, io no, io non mi guardavo attorno, cercavo di imparare a leggere il labiale ma era difficile concentrarsi, ancora di più imparare a fare una cosa che nei film sembra facile ma poi non è facile per niente. Maledetto cinema, ci ha dato l'illusione di poter fare tutto e invece siamo diventati bravi solo a criticarlo.
Poteva essere un grande amore ma nessuno dei due riusciva a capire cosa stesse dicendo l'altro, forse anche per questo poteva essere un grande amore.
Ma non mi sarei ricordato il colore del vestito, questa dimenticanza sarebbe stata la scintilla di una lite tra, diciamo, 15 anni quando ormai ci saremmo ritrovati annoiati a capire cosa ci dicessimo, capire ogni parola e soppesarla con una cura che nemmeno un farmacista, un farmacista particolarmente pignolo.
Avrei voluto prenderle la mano, la musica picchiava fortissimo e forse sarebbe stato un bel gesto, forse no, perché fondamentalmente nonostante io ci sia stato dentro non ho avuto cognizione del tono della conversazione; quindi ripensandoci avrei potuto fare qualcosa di profondamente sbagliato, penso che non lo saprò mai. A volte una persona ha il coraggio per fare e dire cose gigantesche e invece poi per prendere una mano ha miliardi di remore.
Nel frattempo, ci cadono addosso, ci precipita gente sulla schiena come se loro fossero mosche e noi fossimo delle lampadine.
Sembrava che la festa stesse per finire, che tutto di lì a poco sarebbe tornato alla normalità, che la musica scemasse e che, finalmente, saremmo riusciti a capire cosa ci stessimo dicendo.
E mentre la musica si abbassava e la gente si allontanava finalmente riuscivo a sentire la sua voce, mi diceva che si era fatto tardi e che doveva andare, biascicava meno di quanto pensassi, e l'occhio a mezz'asta ormai era quasi del tutto sparito.
La vedevo allontanarsi, forse era passata più di un'ora, un'ora in cui nessuno dei due aveva capito quello che diceva, ma comunque era stato bello, perché spesso è bello non capire cosa succede, aggrapparsi alle sensazioni, anche se le sensazioni sono di parte, più di parte di un arbitro corrotto e questo noi lo sappiamo e ci sta bene.
La vedevo allontanarsi, probabilmente non l'avrei più rivista, non tanto perché non frequento le feste, più che altro perché a volte capita. Incontri una persona che sembra perfetta e poi non la incontri più.
Succede, come succede di incontrarsi ad una festa, non capirsi, e salutarsi, capire solo l'addio, solo la parte finale, ma capirla bene.
Come in un film di cui capisci solo la scena finale.