Liturgia della pace
Viviamo in un mondo in cui chi ha occupato e devastato territori per decenni si presenta improvvisamente come mediatore e garante della stabilità internazionale. Così è apparso Donald Trump al Knesset, celebrato come il geniale interprete del vecchio schema politico problema–reazione–soluzione. Il copione è rodato: si alimenta il conflitto, lo si gestisce e infine lo si pacifica a proprio vantaggio. Il risultato è una coreografia perfetta da prima serata: ostaggi liberati, strette di mano, sorrisi e flash. Eppure, dietro la retorica del trionfo, restano solo macerie, morti e una Palestina precipitata nel caos, dove le milizie si consumano in una guerra fratricida senza prospettiva.
Quale pace, e soprattutto a beneficio di chi? Ciò che il 13 ottobre 2025 è stato trasmesso in mondovisione è parso più un rituale simbolico che un reale processo di riconciliazione. Una data scelta con cura, utile a sancire un nuovo equilibrio internazionale: la rilegittimazione dell’asse atlantico e del globalismo neoliberale in funzione contenitiva del blocco euroasiatico dei BRICS. Una pace virtuale, costruita sulla potenza narrativa più che sui fatti, concepita per consolidare gerarchie geopolitiche ormai in aperta crisi di consenso.
Nel suo discorso, Trump ha parlato degli Stati Uniti come di una nazione risorta come un’araba fenice, destinata a vincere ciò che resta da vincere nella storia. Un linguaggio solenne, intriso di religiosità politica, in cui la guerra viene resa necessaria e persino benedetta. Il copione scivola dalla propaganda alla distopia: trionfalismo, moralismo e mitologia nazionale si intrecciano in una sintesi grottesca.
Ecco dunque il cosiddetto Piano di Pace: un documento imposto dai vincitori di sempre, presentato come svolta epocale, ma costruito sulle rovine di un popolo annientato. Dopo bombardamenti incessanti, deportazioni e distruzione sistematica, la Palestina è stata privata del diritto stesso di esistere. Qui la pace non è costruzione di convivenza, ma amministrazione dell’annientamento: l’estensione di una politica coloniale per mezzo della diplomazia.
Israele si presenta oggi come un modello politico che coniuga apparente democrazia e fondamentalismo identitario. Una teodemocrazia tecnologica, dove l’apparato militare e il complesso della tecno-sicurezza formano l’ossatura del potere. È un sistema che seduce molte élite occidentali perché offre una sintesi funzionale agli interessi del capitalismo globale: controllo sociale, sorveglianza digitale, supremazia militare e gestione permanente del conflitto.
Attorno a questo modello gravitano governi vassalli incaricati di amministrare le province dell’Impero occidentale. Il loro compito è facilitare l’adattamento delle masse a un ordine gerarchico: erosione delle libertà civili, compressione dei diritti sociali, normalizzazione dell’ineguaglianza strutturale. Le democrazie liberali si sono trasformate in democrature: sistemi formalmente pluralisti ma sostanzialmente oligarchici.
Delusi dalla grande illusione della sinistra neoliberale, interi popoli occidentali sono stati indirizzati verso leader carismatici e populisti, progettati per convertire il malcontento in consenso reazionario. Il capitalismo globale, padrone della strategia, ha orchestrato la transizione: dall’emergenza sanitaria al riarmo, dal biopotere alla militarizzazione sociale. Non si tratta di caos politico, ma di governance della crisi.
In questo scenario, la pace è diventata una parola liturgica: pronunciata per legittimare ciò che la politica non osa ammettere. È un dispositivo di disciplinamento. Obbedisci e avrai pace. Opponiti e sarai un nemico dell’ordine. Così funziona il totalitarismo postmoderno: non proibisce la libertà, la rende inutile.
Questo sistema si regge su un meccanismo tanto semplice quanto efficace: costruire narrazioni salvifiche come anestetici collettivi. Ogni crisi è presentata come inevitabile, ogni guerra come necessaria. È il trionfo dell’ingegneria del consenso: il dissenso viene liquidato come rumore, la complessità ridotta a slogan, l’opinione pubblica trattata come un target da gestire.
L’informazione, da cane da guardia della democrazia, è divenuta cane da compagnia del potere. La manipolazione semantica regna sovrana: le vittime sono danni collaterali, l’occupazione diventa sicurezza preventiva, la censura si traveste da lotta alla disinformazione. Così si neutralizza il pensiero critico e si sterilizza la coscienza.
Il caso palestinese lo rivela senza ambiguità: i diritti umani valgono solo quando non intralciano l’economia della forza. Le Nazioni Unite sono ignorate, la Corte Penale Internazionale delegittimata, il diritto internazionale riscritto dai missili. Chi denuncia questa ipocrisia è un sovversivo. Chi chiede giustizia è un estremista.
La storia, tuttavia, insegna che nessun dominio è eterno e nessuna costruzione ideologica è invulnerabile. Ogni impero proclamatosi indispensabile è stato travolto da ciò che credeva di poter controllare: la sete di giustizia. La pace imposta è una parentesi, non un destino. Si possono educare le società alla paura, ma non si può estinguere la coscienza.
La liturgia del potere può occupare le istituzioni, manipolare il linguaggio e controllare l’informazione, ma non può spegnere l’intelligenza di chi rifiuta la resa intellettuale. La libertà, quando non può essere esercitata, si custodisce nel pensiero. E dal pensiero, sempre, nasce la trasformazione.
Nell’epoca in cui la propaganda ha sostituito la verità e la forza pretende di farsi diritto, l’unico atto rivoluzionario è restare fedeli alla realtà. Non accettare la menzogna come fondamento del mondo. Non confondere la dominazione con l’ordine. Non scambiare la violenza per civiltà.
Ogni potere ha avuto bisogno di un mito per giustificare se stesso. Il nostro lo chiama pace. Solo quando smetteremo di venerare questo mito potremo restituire senso alla storia: non il racconto dei vincitori, ma il destino comune dell’umanità.