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21 Novembre 2025 - Cinema

L’abisso secondo Virzì: il silenzio, la colpa, la grazia

Cinque secondi
  
C’è un uomo che vive da solo, in una tenuta di campagna che sembra stare alla periferia del mondo. Si sveglia ogni mattina con gli arpeggi di Place To Be di Nick Drake come suoneria della sveglia. Il suo è un regno decaduto: senza più luce, con le mura corrose dall’umidità e le gocce che dal cielo percolano sulle vettovaglie. Ha gli abiti logori e la barba incolta, il volto è vigile ma spento. Non vuole più avere a che fare con il mondo, gli fa male, come avrebbe detto Giorgio Gaber. Eppure, il primo gesto ogni mattina è inviare un messaggio di buongiorno, un pensiero, e l’ultimo, la sera, una buonanotte: un rituale d’amore ma non si sa verso chi, lo si scoprirà solo alla fine. Tutti quei messaggi restano senza risposta, come il suo abisso interiore: silenzioso e doloroso.
 
È questo il mood iniziale di Cinque Secondi, ultimo film del regista Paolo Virzì che già in passato ci aveva abituati a sferrare pesanti fendenti alle distorsioni di una società sempre più preda di cortocircuiti di senso (Tutta la vita davanti, Il capitale umano). In Cinque Secondi questa critica sottesa, ferma ma mai ingombrante, sfiora la poesia, ondeggiando tra il pathos e la leggerezza, l’esecrazione e l’arte, complice anche un Valerio Mastandrea in stato di grazia nei panni del protagonista.
 
Adriano Sereni (Valerio Mastandrea) è un uomo che ha rinunciato a vivere. La figlia, gravemente provata da una malattia neurodegenerativa, è morta per la sciatteria del padre. Forse. Ci sono responsabilità da appurare, un processo in corso. L’ex moglie (Ilaria Spada) è una donna indurita dalle incomprensioni, dalla volontà di controllo: non sopporta l’istrionismo di Adriano, avvocato brillante e dai frequenti coup de théâtre. Tuttavia, nei pressi della solitaria tenuta in cui il Sereni si è esiliato, vanno improvvisamente a insediarsi un gruppo di giovani un po’ fricchettoni, che infrangono la sacra quiete del protagonista prendendo possesso di una proprietà abbandonata. Tra loro c’è Matilde (Galatéa Bellugi), nobile di sangue ma pure lei aliena dalla modernità, incinta e avversa alle regole, in piena simbiosi con le forze della natura e con quell’ingenuità un po’ ottusa dei ragazzi che si percepiscono alternativi.
 
È l’improbabile e imprevisto sincretismo tra i due che a poco a poco trasforma l’interiorità di Adriano. Forse un legame antico, quasi animico, forse un’affinità puramente istintuale. La connessione, percepita da entrambi, si sviluppa tra incomprensioni e slanci di puro affetto: il resto lo fa la sceneggiatura, che evita compromessi ed eccessi di stile, e anzi regala momenti tanto esilaranti quanto estemporanei. La malinconia di fondo del protagonista preserva dallo schmaltz hollywoodiano, da abbracci fuori posto e sorrisi irrealizzabili. Il finale è una staffilata di bellezza, le inevitabili lacrime scendono a corredo di Place To Be, riprodotta questa volta nella sua interezza mentre scorrono i titoli di coda.
 
Il film di Paolo Virzì è la storia di una paralisi di cinque secondi, quanto basta per scivolare all’inferno. È il ritratto dell’umanissima imperfezione del protagonista e dei suoi satelliti: il figlio rimasto solo, addestrato a rifiutare il padre; la compagna Giuliana che lo ama senza essere mai veramente ricambiata, specchiando di lui tutte le impurità e contraddizioni; l’alessitimia quasi inscalfibile dell’ex moglie; la partoriente Matilde e un giovane cuore disseminato di disperazione. È un coacervo di umanità distorte, contraddittorie, in cerca di senso.
 
Eppure, non si piange a comando, ci si commuove, sì, ma per la fotografia, per il ritratto di una natura incolta che è stata abbandonata fino a rifiorire per un anarcoide atto d’amore, insieme ai vigneti, alla vendemmia, al vino naturale che ne erompe. L’attaccamento cieco alla vita, la resipiscenza fino allo stremo, implorando (per sé) una giustizia severa e implacabile, sono altri messaggi sibillini rivolti a una società di indici puntati ma mai verso la luna. E commuovono, infine, la recitazione di Mastandrea (come se il ruolo scelto sia percepito molto più di un copione), i tempi lenti e generosi, l’assenza di trucchi, il piacere del vuoto e delle pause, il silenzio.
 
Cinque secondi è un atto di coraggio impressionista che mette a fuoco le distopie quotidiane che accettiamo come parte della normalità. Lontano da fantasmagorie circensi e profusioni dialettiche, dalla perfezione a ogni costo, questo film regala dolcezza e introspezione: nella profondità languida degli occhi di Mastandrea scendiamo fino ad abbracciare un abisso che è anche nostro, e poi, in cinque secondi, risorgere ancora.


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