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03 Novembre 2023 - Storie

La sfida di dare un senso al proprio dono

Tra prosa e porno
  
Alla fine, cos’è il talento? Basta nascerci? Un dono divino? Dato a che pro? A che scopo?
 
Nel mio caso si può veramente dire che io sia bravo a fare qualcosa? O, piuttosto, è tutta una questione di squallida matematica e di sistema metrico decimale?
 
Mi chiamo B. e faccio l’attore Porno, sono il migliore? Probabile. Ho meriti? No. È solo una questione di nascita, come nascere dalla parte giusta del mondo e cercare di affermare un talento, mentre l’altra metà del mondo non riesce ad affermare con sicurezza quando ha mangiato per l’ultima volta.
 
E ti dispiace e sei sinceramente contrito, mentre metti in moto la BMW.
 
Ma io sono solo carne, carne da macello, sono l’uomo di spalle, sono quello che tu vorresti essere e che non sarai mai. Non è colpa tua, amico mio, non è per niente colpa tua, è talento, talento che dio, nella sua infinita misericordia, ha deciso di non darti.
 
Il talento va dove vuole, come la metà delle cose veramente belle e importanti e a cui tu sembra non abbia alcun diritto.
 
Capisco che ormai la narrazione imponga che ogni lavoro sia una missione e che senza il sacrificio non si è felici, che più si soffre più sarà bello il paradiso; non è così, non è così per me.
 
Il paradiso non esiste, non esiste nemmeno il sacrificio, esiste soltanto la gigantesca fortuna di essere nati con un arnese fuori dal comune e di averne fatto una gigantesca fonte di reddito.
 
Però, un mercoledì decisi di smettere con il porno: troppo olio abbronzante, troppe urla finte, occhi sbarrati, parole vuote e amore non corrisposto; si, amore non corrisposto. La carne ha dei sentimenti anche se, il più delle volte, può essere banalmente soltanto a riposo o rigida.
 
Io non potevo più continuare a fare questo lavoro, perché mi innamoravo continuamente e soffrivo come non è giusto soffrire, come nessuno merita; soffrivo così bene che era diventato un esercizio di stile, ma la carne non soffre, io sono l’uomo di spalle, io reggo l’invidia sui trapezi e nessuno conosce il colore dei miei occhi.
 
Allora quel mercoledì decisi di licenziarmi e di fare l’attore vero, cominciai a studiare i testi classici: Shakespeare, i testi di Raymond Carver.
 
Non sono mai stato veloce a leggere e dopo quattro pagine dovevo ricominciare daccapo perché non capivo metà delle parole che pronunciavo, ma si sa che la costanza è amica dell’arte e tra un Gin Tonic e l’altro la stupidità era diventata esercizio di memoria.
 
Los Angeles è piena di piccoli teatri dove nessuno può diventare qualcuno e viceversa; il viceversa è importante, la merda può anche scorrere al contrario dai tubi. Sì, la fisica non è sincera a volte e a volte la teoria è soltanto teoria, la pratica percorre strade diverse.
 
La mia compagna di scena era bellissima, una bellezza diversa da quelle a cui ero abituato. Era normale: sorrideva quando era giusto farlo, non era forzata, non squittiva, non mi compiaceva, era una brava persona e io, per la milionesima volta, mi ero innamorato di lei; lo scorrere delle cose era diverso, non l’avevo vista nuda, né cosparsa d’olio, né con lingerie improbabile, era semplice e dritta come le cose belle sanno essere.
 
Le prove andavano bene: ero emozionato, discreto, non ero bravo, non ero De Niro, non lo sarei mai stato; però non ero più di spalle con il culo a favore di camera. Sotto svariati punti di vista si può considerare una vittoria.  
 
La sera della prima il teatro era discretamente pieno, ero piuttosto famoso dopotutto e la curiosità anche questa volta aveva fatto la sua parte in maniera egregia.
 
Sembrava andare tutto bene: le luci, lo scricchiolio delle assi del palco, l’aria piena di scetticismo che piano piano si trasformava in curiosità e poi in approvazione; era bello, stavo sudando ma aveva tutto un senso diverso, più nobile.
 
Finché quello che sei non va mai troppo lontano da dove sei, e quella calzamaglia mi tradì, il mio arnese mi tradì: nel bel mezzo del monologo una gigantesca erezione spezzò il ritmo come si spezza un ramo secco, quel bozzo enorme catturò l’attenzione di tutti e nessuno ascoltò più una parola del monologo.
 
Ancora la raccontano in giro: quella sera alcuni dissero che morì il teatro, io più umilmente direi che sono morto io.
 
Non scappi mai da chi sei, non scappi dal tuo talento, anche se l’hai ottenuto senza un reale merito ma solo per via di una genetica generosa. Avevo ammazzato il teatro un giovedì sera senza pretese, a Los Angeles pioveva e io insieme alla pioggia vidi scorrere nei canali di scolo la mia vita, o perlomeno quello che avrei voluto che fosse la mia vita.
 
E ora mi ritrovo qui con 40 gradi e l’aria condizionata rotta in un teatro di posa squallido, mentre mangio patatine e mi faccio truccare le chiappe per far sì che non siano lucide e sto qui a pensare che, se avessi avuto l’arnese più piccolo, forse sarei stato più felice di tutti quelli che vorrebbero essere me.
 
Si va in scena.

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