A strisce nere
Non so cosa mi sia successo. Ero di sicuro una tigre o un animale simile, come un giaguaro. Credo che fossi una femmina. Ne sono quasi sicuro. E adesso eccomi qua. La mia è una vita trapiantata, strappata al suo habitat.
Volete sapere cosa è successo? Mi sono svegliato umano, e questo è quanto. Adattarmi al cambiamento mi è riuscito abbastanza bene, così in fretta che quasi nessuno se n'è accorto. Ho tanti amici umani, e tra questi alcuni sanno, altri no, ma ormai nessuno pensa abbia importanza. Naturalmente qualcuno nel tempo si è allontanato. Questo mi dispiace molto. Ho fatto degli sforzi per infilarmi quest'abito non mio, nel quale mi ritrovo da un po' di tempo. E non ho artigli o denti che possano far male. Vorrei solo che si riconoscesse quanto sia grande l'impegno che ho messo per imparare a vivere tra voi. Se mi è rimasto qualcosa della mia passata condizione? Eccome.
L'altro giorno, ad esempio, mentre aprivo il cassonetto per buttare la spazzatura, ho visto correre un ragazzo, ma non era una corsa sportiva, non aveva scarpe o equipaggiamento adatto. Correva in camicia e maglione; un semplice momento di sfogo della vitalità: qualcosa che conosco bene. Da parte mia, mi sono ragionevolmente astenuto dall'inseguirlo, ma, credetemi, avrei voluto tanto. Quel momento, sì, mi ha ricordato molto della mia esistenza passata. Non avevo mai pensato che gli uomini avessero anche loro questi istinti vitali. Sembra che voi facciate tutto per una ragione precisa e ci teniate a esplicitarla, meglio ancora se si concretizza in mucchietti di soldi o in cifre di orari o calorie, mai accada che vi si prenda per strambi. Magari anche lui, chissà, sarà stato un'antilope, come io adesso sono un uomo di quarantatré anni dopo essere stato una tigre (o qualcosa di simile, come ho detto) per tante generazioni.
Dell'animale mi è anche rimasto l'amore per il silenzio. Ho imparato a fare conversazione, si capisce, ma dopo un po' mi cedono i nervi e devo uscire all'aperto. Il fumo in questo è mio prezioso alleato; ma l'ambito nel quale sono rimasto più simile a me stesso (al me stesso di prima, considerando questa una spiacevole intromissione in una forma non mia) sono i sogni. In realtà, più che sogni sono ricordi. Foreste inzuppate di acqua pura che stilla dalle foglie, rivoletti attorno alle radici lucide; le mie orme ricalcate sul terreno. Ruggisco, volto il capo dove la traccia olfattiva sembra continuare. E ci sono i miei compagni con me, siamo un branco, con i cuccioli tra ognuno di noi. Anch'io ho il mio, lì accanto, ha le zampe impastate di fango e saltella tutto il tempo.
In queste fantasie c'è del sangue, naturalmente, ma talvolta le mie fantasie non si realizzano e proprio quando sto per affondare i denti, nel momento in cui la pupilla della mia preda si dilata per il terrore, mi sento inciampare o tirare indietro come da un guinzaglio. E ogni mattina la maledetta sveglia spezza i miei ricordi: con ancora le ultime immagini negli occhi, prendo il caffè, esco, prendo la metropolitana come tutti voi. Devo pur vivere. Abito questo corpo umano da tredici anni. Ho imparato a prendermene cura più per necessità pratiche che per vero attaccamento. Il suo proprietario aveva proprio trent'anni quando me lo lasciò e faceva l'insegnante alle scuole medie. Capite bene che non potevo continuare nel solco del mio predecessore. Non ho mai visto umani nei miei sogni, ma la rabbia è un'emozione che conosco bene.
La nuova personalità aveva bisogno di un nuovo lavoro, alla larga da situazioni che potevano scatenare gli istinti che imparavo via via ad accantonare. Seppi poi che il mio predecessore, dico il legittimo proprietario di questo corpo, era laureato in biologia. Sfruttai quindi quelle conoscenze per cambiare mestiere e adesso faccio il rappresentante di farmaci. È un buon lavoro, che mi ha permesso di comprare casa. Dover viaggiare non mi turba. Da due anni vedo una donna divorziata con un figlio ormai grandicello. Lei naturalmente non sa nulla. Potrei dirglielo, in futuro, non so. Lui, però - il bambino - sospetta qualcosa.
È successo che siamo andati allo zoo; è normale per un marmocchio di dieci anni, credo. Oppure l'idea è partita proprio da lui, per mettere alla prova i suoi sospetti. Vi lascio immaginare il resto della storia. Pare che io mi sia attaccato alle sbarre, cercando di scuoterle con tutte le forze. Intanto mugolavo come un invasato, con tanto di occhi sbarrati. Ricordo la voce di Sarah in lontananza, come un'eco incomprensibile. Per fortuna non ha pensato di toccarmi; sarebbe stato spiacevole per entrambi. Ma subito, brillantemente, ho ripreso il controllo su me stesso: mi sono messo a piangere. Mentre Sarah mi abbracciava, ho spiegato che sono un animalista, che li avevo accompagnati per affetto, ma che a volte vedere animali in quello stato mi faceva star male. Sarah ha quasi pianto anche lei. Il ragazzino invece è rimasto serio, imperscrutabile. L'ho guardato minacciosamente. Che provi a dirlo ai suoi amichetti, che il tipo che esce con sua madre ha l'anima di una bestia selvaggia. Del resto, è qualcosa di così intollerabile?
I miei amici dicono che sono un tipo riservato, quasi burbero. È vero, non perdo tempo ad addolcire le verità. Però mi piace anche ridere, ridere così forte che anche chi mi conosce fa una faccia stupita. Il fatto è che ridere è per me ancora una bellissima scoperta. Le risate sono un ambito tutto umano e se potessi tornare indietro, tra i miei simili, avrei il preciso obiettivo di insegnare loro come si fa. Allora sì: da animali superiori quali già siamo, saremmo a qual punto perfette.