Dallo stereo a Spotify
I nomi Daniel Ek e Martin Lorentzon vi dicono qualcosa? Per farla breve stiamo parlando degli inventori di Spotify, piattaforma di streaming ideata in Svezia nel 2006 dalla brillante intuizione dei due giovani e ufficialmente attiva dal 2008 con l’obiettivo di rendere fruibile la musica, dando una spallata alla pirateria musicale (Napster ed eMule galoppavano e si scaricava a più non posso). In poco tempo Ek e Lorentzon hanno ottenuto le licenze necessarie dai più importanti detentori dei diritti musicali per dar vita al loro sogno, creando di fatto una partnership con artisti e case discografiche.
Il fatto di poter ascoltare di tutto senza il bisogno di possedere necessariamente il supporto fisico (che si tratti di CD o di vinili) ha, da un lato, creato una pletora di utenti connessi da tutto il mondo, in grado di poter ascoltare qualunque cosa con un semplice clic, dall’altro ha messo sempre più in crisi l’industria musicale trasformando i supporti fisici in roba da boomer. Si sono quasi estinti, addirittura, i negozi che vendono dischi; mi piace, tra questi, citare una mosca bianca: Carù Dischi (nel Varesotto), più che un negozio un’esperienza mistica (che straconsiglio), dove si può ancora acquistare e respirare musica, viverla romanticamente come una volta. Ne parlavo recentemente con un collega musicista che mi faceva notare come, a casa di una nostra amica cantante, non ci fosse nemmeno un cd sulle mensole dalla sua libreria. Di stereo, giradischi poi, nemmeno l’ombra. Ma ci arriviamo…
Spotify, complice l’interfaccia decisamente intuitiva, consente di creare playlist personalizzate, oltre a proporne di proprie sulla base dei gusti musicali degli utenti. L’app è così diventata in pochissimi anni virale, anche grazie al passaparola: utenti che invitavano altri utenti a iscriversi hanno fatto sì che Spotify sia oggi un impero (sono parecchio riluttante all’idea di iscrivermi, ma mai dire mai).
Si tratta, ovviamente, di una app non gratuita, dal momento che l’azienda ha insistito per convertire gli abbonamenti per così dire classici in abbonamenti premium che, tra le tante possibilità, consentono di ascoltare musica anche in modalità offline, facendo espandere ancora di più il colosso svedese. Ad oggi si tratta della piattaforma musicale più potente al mondo (tra le altre non possiamo non citare Amazon Music, Apple Music e Google Play), anche grazie all’introduzione dei podcast. Non esiste ancora una relazione tra Spotify e l’IA, ma arriverà presto dato che il futuro è alle porte: tremo all’idea, ma forse sono io a essere anacronistico.
Il problema, a mio avviso, nasce dalla modalità di ascolto che piattaforme come Spotify offrono. Quanto giovano, mi chiedo, alla creatività, al gusto per la ricerca, alla scoperta? Gente come me, che si aggira attorno alla soglia dei cinquanta, che ha avuto la fortuna di imbracciare sin dalla tenera età uno strumento musicale praticando musica (lo stesso discorso è valido anche per tutti coloro che non hanno mai approcciato uno strumento), si è avvicinata all’arte dei suoni in maniera diversa, per forza di cose. Abbiamo fatto incetta di cd, le mensole delle nostre stanze erano stracolme di dischi (le mie lo sono ancora), la musica l’abbiamo vissuta sulla pelle in modo viscerale: ci si incontrava nelle nostre camerette e i pomeriggi volavano ascoltando musica con attenzione e passione (adesso si schiaccia di più il tasto skip rispetto al tasto play…). Abbiamo anche festeggiato per l’acquisto di un nuovo album, facendo pre-order con mesi di anticipo, mettendoci in coda per averne la copia tra le mani, visibilmente emozionati e gasati. I nostri contenitori non erano le playlist e nemmeno le “librerie” elettroniche. Erano e SONO (lo dico con orgoglio) quelle fisiche, talvolta polverose, a volte scheggiate, consumate e vissute dal tempo. Non una parte dell’arredamento ma il prolungamento della nostra anima. Lo specchio lampante e tangibile di una delle nostre passioni principali, se non la principale. Non esisteva Spotify che creava una scaletta per generi musicali, sensazioni, umori da ascoltare nei contesti ritenuti da “lei” più idonei.
Come facevamo a scoprire nuovi artisti? “Semplice” (mica tanto). Principalmente col passaparola. Esatto, parlavamo (strano no?), interagivamo con i nostri coscritti, non con uno smartphone. Una volta scoperto un’artista eravamo noi stessi (ad esempio attraverso interviste) a scoprire le sue influenze, che ci permettevano di andare a ritroso nel tempo. Io, ad esempio, sono partito da Robben Ford per poi, via via, arrivare a B.B. King, Bloomfield, Collins, sino a risalire all’origine con nomi come Robert Johnson, la personificazione del blues. Oppure, banalmente, anche sfogliando tra i credit dei booklet contenuti all’interno dei cd si scoprivano tante cose, a partire dai musicisti, gli arrangiatori, i produttori. A ripensarci sembra sia passata non un secolo, ma un’era…
La fatica, lo “sforzo” (ma era davvero uno sforzo per noi? Non direi…) di scovare l’album che non ti aspetti (discorso che vale anche per la settima arte con i film), l’appagamento dovuto al fatto di scoprire un artista dal nulla era (ed è ancora per me) adrenalinico. Ho come l’impressione che avere tutto a portata di mano, dalle playlist alle bacheche di film in streaming (sono loro a proporti cosa vedere, non siamo noi a cercarli), abbia e non poco atrofizzato le menti. Perfino l’IA, nonostante i suoi vantaggi, non dà la possibilità ai giovani d’oggi, che di certo non ne hanno colpa, di poter vivere l’ebbrezza della scoperta. L’esigua capacità attentiva (lo noto a scuola con i miei alunni), l’avere tutto e subito, ha di fatto ridotto il prodotto artistico a qualcosa che di artistico ha ben poco, specie ai loro occhi.
Tutto questo ha tolto la vera magia alla musica che non era solo note e testi, ma incarnava la voglia di sperimentare e condividere con altri le passioni e i gusti, riflesso di vite piene e degne di essere vissute.