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10 Dicembre 2020 - Cinema

Da Woody Allen a Zygmunt Bauman, l'amore e il cinema nel tempo dell'effimero

Noi e Annie
  
Vincitore di quattro premi Oscar e un Golden Globe, Annie Hall, titolo che in Italia conosciamo come Io e Annie, è il film che nel 1977 consacra Woody Allen come uno dei più grandi registi dell’epoca contemporanea. Le motivazioni sono ovvie: l’abbattimento della quarta parete che permette allo spettatore di entrare nel vivo della narrazione e identificarsi con il vissuto e le riflessioni del protagonista, l’amara comicità che rivela con geniale leggerezza le tragiche contraddizioni dell’essere umano, la chimica attoriale della coppia Keaton-Allen, già collaudata in precedenti capolavori come Amore e Guerra, Il Dormiglione e Provaci ancora, Sam.
 
Il monologo iniziale del protagonista Alvy Singer, comico di Brooklyn, ci trascina subito in medias res:
 
C’è una vecchia storiella: due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice: “Ragazza mia, il mangiare qui dentro fa veramente pena” e l’altra “Sì, è uno schifo; ma poi che porzioni piccole!”. Beh, essenzialmente è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miseria, di sofferenza, di infelicità e disgraziatamente dura troppo poco.
C'è un'altra battuta che è importante per me; è quella che di solito viene attribuita a Groucho Marx ma credo dovuta in origine al genio di Freud e che è in relazione con l'inconscio; ecco, dice così – parafrasandola –: «Io non vorrei mai appartenere a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me». È la battuta chiave della mia vita di adulto in relazione alle mie relazioni con le donne.
Sapete… ultimamente i pensieri più strani attraversano la mia mente, perché sono sui 40 e penso di attraversare una crisi o che so, chi lo sa […]. Annie e io abbiamo rotto e io ancora non riesco a farmene una ragione. Io… io continuo a studiare i cocci del nostro rapporto nella mia mente e a esaminare la mia vita cercando di capire da dove è partita la crepa […]

Alvy presenta se stesso, la propria visione del mondo e ci informa riguardo la fine del suo rapporto con Annie Hall; una relazione durata un anno e vissuta fra alti e bassi comuni a quelli di una qualsiasi altra storia d’amore. Ma si tratta di una storia finita. Ed è proprio dalla fine che ha inizio il viaggio introspettivo del protagonista che, guidato dai ricordi, ci conduce fino alla sua infanzia per ricercare le origini dei suoi problemi, delle nevrosi, del suo senso di inadeguatezza che lo spingono inevitabilmente ad allontanare tutte le donne di cui si innamora. Per lo spettatore è come assistere ad una vera e propria seduta analitica, attraverso la quale tenta anche lui di individuare il pezzo mancante del puzzle.

Nella celebre scena in cui l’Alvy adulto si confronta con i suoi compagni di scuola, il protagonista rievoca la teoria freudiana delle cinque fasi di sviluppo psicosessuale dell’individuo, ritenendo che i suoi complessi derivino dal fatto di non aver vissuto il cosiddetto periodo di “latenza”, poiché da sempre attratto dalle ragazze e dominato dagli impulsi sessuali. Nella scena immediatamente successiva fa cenno ad un’anedonia radicata in giovane età, che lo portava a preoccuparsi di eventi lontani da lui anni luce, come il fenomeno irreversibile della dilatazione dell’universo e la sua conseguente autodistruzione, e a trascurare i piaceri delle piccole cose, come quelle che condivideva con Annie: una donna ingenua, divertente, curiosa, semplice. Forse troppo. E di fronte alle continue sollecitazioni da parte del proprio compagno ad elevarsi a livelli intellettuali più alti, Annie Hall si dedica alla lettura di testi impegnati, acquisisce una maggiore sicurezza e coscienza di sé, coltiva le sue ambizioni per autodeterminarsi ma, paradossalmente, questo disturba Alvy, il quale esprime la sua gelosia e il suo malessere con la mancanza di desiderio, evitando puntualmente il confronto diretto circa i reali problemi della coppia e scaricando tutte le responsabilità su Annie, accusata di essere un’amante poco presente. Così, dopo aver spogliato il proprio compagno di tutta quella cultura e seducente intelligenza, Annie realizza di trovarsi di fronte un uomo profondamente insicuro, incapace di godersi la vita, di mettere in gioco i propri sentimenti e le proprie fragilità e destinato quindi a vivere nell’insoddisfazione:
 
La tua vita è il centro di New York, sei come un’isola, sei autosufficiente
 
Queste parole non si limitano soltanto a risolvere l’enigma di Alvy, ma svelano anche la natura contraddittoria degli individui della società del nostro tempo; una società liquida, per usare un’espressione chiave del pensiero critico di un importante filosofo e sociologo della contemporaneità, Zygmunt Bauman. Allen fa uso della cinepresa per deridere se stesso, per mettersi a nudo, ma di fatto è l’essere umano a diventare oggetto di studio. Nella società del consumo che mira ad una perpetua ricerca del successo e al superamento dei valori e degli ideali tradizionali considerati ormai non più essenziali, l’individuo si configura come un sistema a circuito chiuso, che si autodetermina in quello che il filosofo danese Kierkegaard definirebbe “lo stadio della vita estetica”, caratterizzato dal desiderio costante e mai del tutto appagato di soddisfare dei bisogni effimeri e mutevoli; anche l’amore rientra fra questi bisogni, ma non è destinato a durare nel tempo. La ragione risiede nel fatto che, di fronte alla differenza sostanziale tra l’amore psichico e quello estetico inteso come sensuale, l’individuo preferisce attenersi alla dimensione estetica, più superficiale e priva di responsabilità.

L’amore psichico si fonda sulla dialettica, porta con sé la fedeltà, la riflessione, l’impegno, consiste nella sussistenza del tempo e tende a modificarsi, ad assumere sfaccettature differenti in base al soggetto desiderato con il quale si relaziona. L’amore sensuale invece si attua nell’immediatezza, prevede la ricerca del piacere erotico e l’infinita ripetizione delle dinamiche del corteggiamento, che viene rivolto non al singolo ma ad una pluralità di individui. Ciò ovviamente è dovuto al fatto che l’alterità, agli occhi dell’esteta, non viene individualizzata bensì universalizzata, al fine di evitare che l’ego dell’esteta venga messo in discussione. Ed è questo il circolo vizioso in cui tutti siamo destinati a fallire. Soffriamo all’idea di non riuscire a trovare qualcuno disposto a prendersi cura di noi, ma siamo i primi a fuggire dalle responsabilità che una relazione comporta, per rifugiarci nuovamente in un individualismo opprimente che ci rende come isole, per l’appunto, autosufficienti. Ma laddove la realtà restituisce un finale cupo e amaro, ecco che l’arte giunge a prestarci soccorso e sulle note di Seems like old times il monologo finale di Woody ci strappa un tenero e nostalgico sorriso, suscitando così la speranza che prima o poi l’io diventi un “noi”.

Dopo di che si fece molto tardi, dovevamo scappare tutti e due. Ma era stato grandioso rivedere Annie, no? Mi resi conto che donna fantastica era e di quanto fosse divertente solo conoscerla. E io pensai a… quella vecchia barzelletta, sapete… Quella dove uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina”, e il dottore gli dice: “perché non lo interna?”, e quello risponde: “e poi a me le uova chi me le fa?”. Be’, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, ehm… pazzi. E assurdi, e… Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova.


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