I giorni del futuro dei Moody Blues
Comincia il giorno
Sfera dal cuore freddo, che governi la notte
Che rimuovi i colori dal nostro scenario
Il rosso è grigio e giallo, bianco
Decidiamo ciò che è giusto
E ciò che è un’illusione
Mettetevi comodi, spegnete le luci. Tirate le tende. Il giorno sta per cominciare e questo è un viaggio. Il viaggio di un giorno, di un uomo qualunque. Come nell’Ulisse di Joyce ma chiudendo gli occhi, seguendo le note della London Festival Orchestra diretta e arrangiata da Peter Knight. I temi, le melodie dell’opera, sono già tutte qui, in questa introduzione maestosa e spiazzante che le riassume, che le amalgama, lasciando alla grande tavolozza timbrica dell’orchestra il compito di far sgorgare dal nulla la magia, condurci nel regno fatato, alle porte di Tannhäuser. Archi, ottoni, legni, arpa, idiofoni. E poi la voce di Mike Pinder mentre recita il monologo scritto dal batterista Graeme Edge. Sullo sfondo il fluire del tempo, come simbolicamente tratteggiato dal metafisico acquerello di David Anstey che funge da copertina. Loro sono i The Moody Blues e questo viaggio si chiama Days of Future Passed, anno domini 1967. La storia passa da qui. Benvenuti.
L’alba
L’alba è una sensazione
Uno splendido soffitto
Il profumo dell’erba
Conduce in un sogno
Ora sei qui
Nessuna paura del futuro
Questo giorno durerà un migliaio di anni
Se lo desideri
Un monile luccicante, emozionale, introdotto e concluso dalla magnificenza dell’orchestra. Nel mezzo il Mark II, tra i primissimi modelli di mellotron utilizzati in musica. Tutto inizia da qua, uno strumento a nastri magnetici preregistrati, un sonnolento e immaginifico risveglio. Luci e ombre diafane, quasi eteree. Il pop, le reminiscenze beat, la psichedelia, si fondono con i suoni, il respiro e le ambientazioni della grande musica classica. È qualcosa che non si era mai ascoltato prima, grazie anche al nuovo Deramic Sound ideato dall’etichetta discografica Decca: due mixer a quattro piste invece di uno solo, una spazialità del suono ad ampio spettro, del tutto nuova. Alba come percezione olistica, come armonia panteistica del tutto. La pace e l’incanto interiore di un uomo nuovo che si affaccia sulla storia, figlio della Summer of Love e delle controculture giovanili dell’epoca.
Il mattino
I sogni di ieri
Sono i sospiri di domani
Osserva giocare i bambini
Sembrano così saggi
Il mattino è l’apoteosi della magia bianca infantile, dell’energia straripante che sembra arrestare il tempo. Il flauto dell’indimenticato Ray Thomas guida il piccolo popolo, distribuisce allegria, scandisce una marcetta che sa di Walt Disney dei tempi d’oro ma con una consapevolezza non solo giocosa, quasi salvifica. Ci pensa l’orchestra a riprendere il filo, a intingerci nel lavacro di un pop mai così maturo e ardito, finalmente e convintamente adulto. Le prime ardite armonie vocali si fanno largo sullo sfondo. Il tema ripassa alle trombe sordinate, quasi a evocare un salto di coscienza. I bambini sospirano, gli aquiloni dissimulano le loro traiettorie in cielo. Il tempo sembra fermarsi: nel mondo dei piccoli trasmuta in eternità.
Pausa pranzo
Ora di punta
Ora di punta
Mi viene voglia di uscire e dire loro
Avete tempo!
Fate un passo indietro
E guardatevi dentro
Io l’ho fatto
E ho scoperto di averne, di tempo
L’ora di punta, l’ora della frenesia. Ce lo ricorda l’orchestra, che ancora una volta sopravanza e raccorda il gruppo. Finalmente arriva il tempo del beat, di un rock antico e per sempre contemporaneo. Gli impasti vocali sono ora più arditi, parte di una matrice stilistica che risente sì dei Beatles ma anche di quanto stava giungendo da oltreoceano. La calma, quel senso di comunione interiore col Creato, è messa a dura prova dalla frenesia della contemporaneità. Quel tempo presente che si lascia fuggire con scuse condizionali, per dirla alla Battiato. La critica alla società dei consumi e del produrre, sebbene faccia quasi tenerezza pensando a ciò in cui si sarebbe trasformato il mondo negli anni a venire, è pienamente sottesa. È una critica culturale e generazionale, alle menti sottomesse dalle cose da fare, alle folle di persone tutte impegnate a volare. Peak hour! E la chitarra di Justin Hayward trova anche il tempo di sfogare le istanze solistiche, fino a quel momento represse.
Il pomeriggio
È martedì pomeriggio
Ora che comincio a vedere, a percorrere il mio cammino
Non mi importa di scacciare le nuvole
Devo scoprire il motivo
Per cui queste voci gentili che avverto
Spiegano tutto con un sospiro
Il pomeriggio è il momento della consapevolezza. Quasi gridata, fiera, mostrata al mondo. Nulla più della frenesia di produrre o di scalare le gerarchie sociali è in grado di compromettere una nuova intima lucidità, inscalfibile. Il mellotron torna sulla scena, delineando fogge sonore orientaleggianti, probabilmente non a caso. L’orchestra lascia spazio ai cinque di Birmingham e le atmosfere si fanno dorate e calde come i fendenti solari estivi. È musica che si tinge di quiete, introspezione, si fa profondamente epica. La cornice di un uomo nuovo, a cui si prospetta la sera e, infine, la notte: vertici compositivi e di senso.
La sera
Quando il sole discende
E le nuvole si accigliano
La notte è iniziata col tramonto
Il tempo del crepuscolo è il tempo del sogno
In veli di blu profondissimo
E la fantasia travalica i cieli screziati
Di una forma che scompare alla vista
La sera è una trilogia di brani, la fotografia di tre differenti momenti e moti dello spirito. La sera è il tempo della fuga, dell’andare via, di scappare da una giornata di lavoro. Ma è anche il tempo del tramonto, del sole che si fa astro per illuminare un altrove che non può essere visto ma può essere percepito, se si è parte di un Tutto. La sera è infine il tempo del crepuscolo, della natura che spiega i suoi canti prima del buio. È l’ora del fantasticare, del sogno a occhi aperti, il preludio al viaggio onirico in raso bianco. Prima dell’apoteosi finale, il disco ha modo di invadere e colpire con efferata liquidità: tutto si fonde in un tripode sonoro che prima si gongola di esotismo, poi ammanta l’ascoltatore di una melodia dal respiro tardoromantico che prorompe improvvisa, quasi dal nulla, e infine sfocia in una psichedelia senza tempo, debitrice ai Beatles spericolati di quegli anni. Armonie di voci inquiete invocano l’immaginario e il pensiero laterale, la fantasia al potere come si diceva allora, uno stato diverso e più recondito di coscienza.
La notte
Notti in raso bianco che non avevano mai fine
Lettere scritte senza alcuna intenzione di spedirle
La bellezza è sempre fuggita a questi occhi
Ma quale sia la verità non saprei dire
Perché ti amo, sì, ti amo
Coverizzata in tutto il mondo (in Italia dai Profeti prima e dai Nomadi poi, con un testo e un respiro che invero non ha nulla a che vedere con l’originale), Nights in White Satin è il capolavoro pop da inviare nello spazio, capace di tramandarsi di generazione in generazione, di strappare la lacrima oggi come ieri, sull’isola di Wight. È il classico punto di svolta, il segno che i tempi stavano cambiando. Unico brano del disco in cui l’orchestra interagisce effettivamente col gruppo, mostrando un’architettura sinfonica inusitata, un respiro celestiale. La metafora delle lenzuola di raso suggella il tempo che scorre tra una relazione e l’altra, tra gli incontri e gli amori che si susseguono attraverso la vita. Il canto di Justin Hayward si fa traboccante e impregnato di pathos, col tema preannunziato dal mellotron che a poco a poco passa il testimone all’orchestra mentre le altre voci armonizzano, salendo in cielo. Ascoltata oggi, pensando soprattutto al genocidio della melodia di cui la musica popolare ha sofferto nel corso degli ultimi anni, ha un che di doloroso e straniante. Un brano che sembra esistito da sempre, impossibile da datare, squisitamente destinato all’eternità.
Respira profondamente richiamando l’oscurità
Osserva le luci dissolversi da ogni stanza
Il rosso è grigio e giallo, bianco
Decidiamo ciò che è giusto
E ciò che è un’illusione
Il viaggio è concluso. Riaprite gli occhi. Sono giorni di futuro passati.