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19 Novembre 2020 - Cinema

Tra incubi e distopie, viaggio nella filmografia di uno dei più quotati cineasti contemporanei

Il cinema destabilizzante di Yorgos Lanthimos
  
“Mi piace costruire film in un modo che li faccia sentire un po' a disagio, ma almeno saranno in grado di goderne, ne saranno intrigati e inizieranno a capire il significato delle cose. E, si spera, nel momento in cui arriveranno alla fine, avranno un forte desiderio di continuare a pensarci”.

Messaggio che non lascia adito a fraintendimenti quello che Yorgos Lanthimos, regista e sceneggiatore greco classe ’73 - tra i più interessanti nell’intero panorama mondiale - rivolge al suo pubblico. Al contempo, poco conosciamo dell’uomo Lanthimos per via del suo essere sfuggente, criptico e decisamente poco avvezzo al gossip e alle regole dello showbiz. Sin dagli esordi con O kalyteros mou filos, (2001), primo lungometraggio girato a quattro mani con Lakis Lazopoulos, il suo cinema inizia a circoscrivere tematiche che, col tempo, verranno messe maggiormente a fuoco divenendo parte integrante di un disegno a dir poco destabilizzante.

Ma è col cupo e sfiancante Kinetta (2005), considerato il suo vero esordio, che cominciano prepotentemente ad affiorare i tratti più riconoscibili e disturbanti del suo cinema. Si tratta di un film che non è ancora stato distribuito nel nostro paese, ma che è reperibile in lingua inglese.

Con Dogtooth (Kynodontas) il regista ellenico inizia a mietere consensi, ottenendo riconoscimenti e visibilità a livello planetario. La pellicola, infatti, conquista una candidatura agli Oscar come miglior film straniero. La storia è emblematica e smaccatamente lanthimossiana: un padre autarchico e totalizzante, una madre sottomessa e colpevolmente complice di un disegno aberrante, tre figli ai quali è precluso ogni contatto col mondo esterno sin dalla nascita, relegati a vivere all'interno di un microcosmo malato, al punto da non avere né un'età, né un nome (con il quale non vengono mai chiamati): i ragazzi ricevono un’educazione snaturata secondo la quale gli aerei sono giocattoli, i fiori degli zombie e i gatti creature malvagie da sopprimere, con i lemmi che hanno totalmente perso il loro referente originario. L'unica possibilità di evasione dalle quattro mura per i tre malcapitati è costituita dalla rottura di uno dei canini (dogtooth, la cui traduzione letterale sarebbe "dente di cane"), momento che segnerebbe per i giovani il passaggio all’età adulta. Il film risulta impregnato di un simbolismo macabro che affiora prepotente in una sorta di crescendo rossiniano. Risalta forte l’allegoria della manipolazione mentale, proprio come quella che i dittatori nei regimi totalitari imprimono a fuoco sulla massa. La famiglia, in questo caso, raffigura il popolo che annuisce, sottomesso, a qualunque dettame imposto dal padre (il dittatore). Il tutto condito con primi piani pazzeschi, assenza di musica, movimenti lenti di camera inframezzati ad altri concitati con la tecnica della steadycam, per il tramite di un linguaggio anticonvenzionale e assolutamente originale. Elementi che spiazzano lo spettatore facendolo entrare in un vortice di nichilismo/voyeurismo/feticismo senza alcuna via d'uscita.

Alps (2011), decisamente sottovalutato, tratta temi come alienazione, empatia, elaborazione del lutto. Anch’esso non risulta attualmente disponibile in lingua italiana, ma ne è caldamente consigliabile l’acquisto e la visione. Con Alps il cinema di Lanthimos assume connotati sempre più destrutturati, per non dire disturbanti e a tratti distopici.

L’apice del successo arriva con The Lobster (2015). Il plot è pazzesco: in un futuro prossimo è vietato categoricamente essere single. Uomini e donne vengono rinchiusi in un hotel dove, in un arco temporale limitato, dovranno trovare l’anima gemella, pena essere trasformati in un animale a loro scelta e venire abbandonati in un bosco nel quale vivono “i ribelli che, al contrario, rifiutano effusioni di qualunque tipo e non accettano l’amore in senso lato”. Entrambe le situazioni delineano una realtà che distorce ciò che è insito nell’essere umano: il bisogno ancestrale di relazione. Il regista stesso ha dichiarato: “Il film nasce da alcune discussioni su come gli esseri umani sentano la necessità di avere una relazione amorosa e su come vengano giudicati i single, su come si venga considerati come dei falliti se non si sta con qualcuno”. La pellicola è, dunque, una sorta di allegoria sull’amore e sui condizionamenti che la società ci impone in questo ambito. I personaggi nel film si comportano in modo infantile e grottesco, mostrando un’aridità nei sentimenti che non lascia in nessun modo intravedere scenari confortanti. The Lobster, primo film in lingua inglese del cineasta ellenico, vince a Cannes il Premio della Giuria e ottiene una candidatura agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale.

Ormai Lanthimos è lanciatissimo e, a distanza di due anni dal predecessore, arriva in sala il suo secondo film in lingua inglese: Il sacrificio del cervo sacro, ispirato liberamente al mito euripideo di Ifigenia. Il cast è di tutto rispetto: ad affiancare Colin Farrell (presente anche in The Lobster) è Nicole Kidman. Si tratta del film che ha definitivamente avvicinato Lanthimos al grande pubblico, anche se la visione è maggiormente consigliata a chi è già a conoscenza delle tematiche sviscerate dal regista, non evidenziandosi come il classico film da cui partire per esplorarne l’arte. Visivamente è una goduria: ai tecnicismi della macchina da presa si aggiunge una meravigliosa fotografia a cielo aperto (il cineasta utilizza solamente la luce naturale). Il plot è decisamente inquietante e racconta di una famiglia totalmente impermeabile ai sentimenti, composta da marito e moglie facenti parte dell’alta borghesia. La freddezza che trasuda dai loro dialoghi è disarmante, così come la gestualità, priva di qualunque trasporto. Questa volta il tema principale è la vendetta, che ha gli occhi e le fattezze di un ragazzo al quale la famiglia è legata indissolubilmente per un passato che via via viene brutalmente dispiegato allo spettatore. Ossessionante e distopico, il film è stato premiato a Cannes per la sceneggiatura originale. I temi cari a Lanthimos sono qui espressi in tutta la loro potenza visiva / psicologica.

Paradossalmente il film ad aver incassato maggiormente al box office (l’ultimo in ordine di tempo) è considerato dalla critica il più lontano dalle tematiche prossime al regista greco. Stiamo parlando di La favorita (2018), opera in costume con due superbe interpreti: Emma Stone e Olivia Colman. Visivamente potente, tuttavia La favorita non ha la capacità di emozionare e, soprattutto, non riesce a sconvolgere e disturbare lo spettatore come i precedenti lungometraggi. Resta comunque un ottimo film. Lanthimos va annoverato, a parere di chi scrive, tra i registi più originali e interessanti in circolazione: in possesso di uno stile inconfondibile, fatto di inquadrature raffinate, di una fotografia che è una delizia per gli occhi e di sceneggiature che sono di per sé un film nel film.


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