Autostrade, poteri forti e macelleria sociale - InEsergo

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13 Luglio 2020 - Attualità

Tra code in autostrada e propaganda, laddove a rimetterci sono sempre i soliti

Autostrade, poteri forti e macelleria sociale
  
Confesso che, da genovese, non mi stupisco più di nulla. Ciò che si è vissuto nella Genova di ferro e aria col crollo del Morandi è stato come una terapia d’urto, un vaccino i cui effetti collaterali hanno travolto una parte di popolazione, corroborando chi in qualche modo è riuscito a resistere. Interruzione di pubblico servizio, impossibilità a spostarsi, crisi sociale ed economica, propaganda e manipolazione. Le conseguenze del disastro del 14 agosto 2018 hanno implicato, a cascata, molto di ciò che abbiamo visto dopo, tra lockdown, limitazioni delle libertà individuali e il confliggere di interessi a piani troppo alti per l’ordinaria percezione di un privato cittadino.  

“Noi non ci arrendiamo” - mi diceva un esercente qualche giorno fa – “però ci siamo anche un po’ rotti il …”. In effetti, sembra che la Superba da diversi anni non abbia tregua. Il dissesto idrogeologico, la mancata messa in sicurezza del territorio, i ricorrenti fenomeni alluvionali non bastavano: ci voleva qualcosa di più, di più eclatante ancora.
 
Dopo la tragedia di quasi due anni fa, l’inconsulta decisione di fare piazza pulita del vecchio viadotto, l’imponente e sciagurata (per quanto tecnicamente ineccepibile) demolizione controllata congegnata da mister dinamite Danilo Coppe, la trasformazione della Valle del Polcevera in un immenso cantiere corredato di polveri, rumori e disagi viari, si pensava di averle viste praticamente tutte. Così, dopo la pandemia da coronavirus e il relativo confinamento – su cui soprassiedo per carità di patria -, Genova e la sua provincia sono nuovamente sprofondati in un circolo buio e vizioso di cui non si riesce a intravedere la fine.

Il 29 maggio scorso, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti guidato da Paola de Micheli, dopo il crollo di una parte della volta della galleria Bertè nei pressi di Masone nel dicembre 2019, ha chiesto ad Autostrade per l’Italia di anticipare il lavoro di smontaggio e rimontaggio delle cosiddette onduline, i rivestimenti delle pareti delle gallerie, per verificarne lo stato dell’arte e intercettare eventuali danni da infiltrazioni d’acqua. Aspi e Mit a gennaio condivisero una procedura operativa di manutenzione e verifica delle 285 gallerie in gestione da espletare entro l’anno, ma il Mit, pescando dal cilindro una circolare del ministero dei Lavori Pubblici datata 1967 (che impone l’obbligo di controlli trimestrali ai rivestimenti), alle porte della stagione turistica ha deciso di imprimere un’accelerata improvvisa e unilaterale al cronoprogramma già concordato. Tale circolare, per nulla dirimente sulle modalità di intervento e implicante ampi margini di discrezionalità (con i risultati ahimè ben noti), avrebbe dovuto valere, de iure, anche per gli altri gestori della rete autostradale: de facto, però, è stata imposta solo ad Aspi.

Gli effetti sono divenuti curiosamente di interesse nazionale dopo la scelta della Juventus di trasvolare con un volo privato dall’aeroporto di Caselle al Cristoforo Colombo per giocare la sua partita contro il Genoa, piuttosto che percorrere i 180 km che separano Torino da Genova lungo le tratte autostradali. Al di là degli aspetti pittoreschi, i lavori tutti insieme e all’improvviso hanno prodotto in Liguria, ma soprattutto nel genovesato, code interminabili, larghi tratti a una sola corsia per senso di marcia da percorrere contromano e senza aree di emergenza, strade provinciali prese d’assalto da orde di tir incolonnati e financo sindaci dislocati in mezzo alla strada a dirigere il traffico.

Dal 10 luglio la Procura di Genova indaga per interruzione di pubblico servizio e omissione di atti d’ufficio, ma i danni inflitti a un territorio già martoriato sono inquantificabili e certamente non rimborsabili da alcuna inchiesta. Incidenti su incidenti, ambulanze impossibilitate a svolgere il proprio lavoro, il porto e i suoi operatori impiccati al capestro della gogna e il tessuto economico di una regione che vive soprattutto di turismo svillaneggiato senza alcun ritegno. A chi giova tutto questo e soprattutto qual è il fil rouge?

Espunto dal discorso il genericamente onnicomprensivo concetto di sfiga, all’alba dei miei quarantacinque anni mi sono convinto che nulla a questo mondo accada per caso. Per cui, per i cittadini ridotti alla condizione sociale ed esistenziale di peones, estromessi ontologicamente dalle stanze del potere ma anche colpevolmente indifferenti e menefreghisti, rimangono solamente due strade da percorrere: vivere in una condizione di eterno presente, lasciando alla pancia e all’emotività il compito di interpretare i fatti e delineare il mondo circostante, oppure provare a unire i puntini. Questa seconda scelta, ben più pericolosa e irriverente perché implica pensiero critico e dubbio sistemico, rischia di sfociare nell’apofenia ed essere additata come complottistica. Corriamo il rischio: preferisco un complottista pensante a un ingenuista lamentoso. La democrazia vive, o dovrebbe vivere, di domande e confronto, di dubbi più che di certezze. In questo paese che percorre vivace la strada della democratura, che censura le opinioni dissidenti per quanto autorevoli e istituisce commissioni anti fake news a sostegno dei professionisti dell’informazione responsabile, è sempre più complesso e talvolta periglioso ragionare con la propria testa. Ma dal momento che gli stupidi sono sempre sicurissimi mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi, per dirla alla Bertrand Russel, proviamo a porci alcune domande e non per dare tutte le risposte.    
 
Il 14 agosto 2018 crolla il Ponte Morandi provocando 43 vittime. A quasi due anni dai fatti è ancora in corso il secondo incidente probatorio sulle cause del disastro e del processo non si sono ancora intraviste le tracce. Si dirà naturalmente che si è voluto compiere un lungo lavoro preliminare di cristallizzazione delle prove ma la sensazione che trapela all’esterno dalla fitta coltre di segretezza, imposta anche ai familiari delle vittime, è che non si riesca a dare seguito alle impressioni cavalcate in pompa magna sin dal principio. In altre parole, tutta la cinematica del crollo appare quantomeno singolare e difficilmente argomentabile. Lasciamo naturalmente che la magistratura faccia il suo corso. Quel che è certo è che da allora il governo, o meglio, una frangia capitanata dal M5S, ha cominciato a parlare di revoca della concessione autostradale senza se e senza ma, generando un contenzioso che si protrae irrisolto ancora oggi. Tant’è vero che il nuovo ponte di Genova, rebus sic stantibus, dovrà essere riconsegnato all’attuale concessionaria: concessionaria, non dimentichiamolo, che ha in cura l’attuale retrofitting della cosiddetta rampa elicoidale in uscita, costruita dall’ingegner Morandi insieme al suo viadotto, nonché la decadente volta della galleria di accesso per chi proviene dall’aeroporto.

Curioso che per altre tragedie autostradali, prima fra tutte l’incidente di Acqualonga ad Avellino, con i suoi quaranta morti e la condanna in primo grado alla reclusione per sei tra dipendenti e dirigenti di Aspi, nessuno abbia mai anche solo ipotizzato qualcosa di simile alla furia giustizialista (e visti gli esiti anche pantoclastica) riscontrata a Genova. Ma tralasciando anche questo aspetto, che ci porterebbe a percorrere una dietrologia oscura e non comprovabile, il dato oggettivo è che sono due anni che è in corso un braccio di ferro senza precedenti tra un concessionario che certamente e colpevolmente ha tradotto in utili il risparmio su manutenzioni e monitoraggio delle strutture e un Ministero che ha sdegnosamente consegnato l’interesse pubblico nelle mani degli azionisti privati. Curioso che proprio Genova e il territorio circostante debbano più di ogni altri subire le sevizie derivanti da questo iperuranico confronto? Neppure per idea, se è poi lo stesso governatore della Liguria Giovanni Toti a confermarlo seraficamente: “paghiamo la lite tra il governo e il concessionario”.

Certo, la particolare orografia del territorio ligure concentra moltissime gallerie e tunnel, ma ciò non significa naturalmente che per porli in sicurezza si debba procedere senza scaglionamento: è sin troppo evidente che una metodologia sincronica di operare metta in ginocchio un territorio e chi lo abita. Ed eccoci al punto focale e conclusivo: la macelleria sociale. Sì, perché le conseguenze di questo battagliare per la corona da parte dei poteri soprastanti sono sempre le medesime: sono i cittadini, le persone comuni, a pagare dazio. Scatterà quindi puntualissima e chirurgica l’ingegneria sociale, fondata, come coronavirus insegna, sulla narrazione del terrore e del disagio a fin di bene. “Forse i liguri non hanno capito cosa stavano rischiando. Le volte delle gallerie potevano venire giù da un momento all’altro e cadere sulle auto in transito” ha tuonato recentemente Placido Migliorino, il super-ispettore del Mit a cui Paola De Micheli ha assegnato l’ingrato compito di sanare i rischi sulla rete autostradale ligure. Spiegatemi: quale concessionario, per quanto delinquenziale nel suo agire, può avere interesse a operare talmente sotto soglia da rischiare, non dico la morte delle persone, ma di perdere la sua principale fonte di profitto?

Ovviamente per il cittadino non è mai possibile ribattere, la controprova non esiste. Dunque, non resta che rimanere in coda, sperando che la macchina nel frattempo non si fermi, di godere sempre di ottima salute e di un buon equilibrio psico-fisico, di non avere mai bisogno di un trasporto d’emergenza, e che nonostante tutto venga recapitato sempre lo stipendio a fine mese. Per sfogarsi, d’altra parte, in perfetto stile homo homini lupus, ci sarà sempre un social, una chat, una qualche stanza virtuale dentro la quale vomitare la propria capacità analitica. Sempre che l’efferata ondulina non metta fine una volta per tutte ai nostri tormenti, magari proprio mentre stiamo fermi in coda, impegnati a discettare con il cellulare in mano. Da asintomatici, naturalmente.

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