12 Maggio 2025 - Cinema
Colpevoli perfetti, processi sbagliati e vite distrutte nel nome del sospetto
I soliti sospetti

Nel 1995, con un budget di soli 6 milioni di dollari, esce nelle sale cinematografiche un film divenuto iconico: sto parlando de I soliti sospetti, thriller girato da Bryan Singer che si accaparrò due premi Oscar, uno per la migliore sceneggiatura originale, l’altro per il miglior attore non protagonista, andato a Kevin Spacey. Solo negli USA incassò ben 23 milioni di dollari, venne acclamato dalla critica ed è assurto negli anni a vero e proprio cult movie.
Il film in questione è un capolavoro di imprevedibilità, soprattutto con quel finale spiazzante che, ancora oggi, lascia a bocca aperta. Ci troviamo in una sala da interrogatorio: Kevin Spacey interpreta Roger “Verbal” Kint (già il nome, un programma…), unico sopravvissuto a un’esplosione, che viene letteralmente messo alle strette per poi essere rilasciato su cauzione. Si volta per l’ultima volta dando le spalle ai poliziotti ed esce zoppicando dalla centrale di polizia. Nel mentre, l’ispettore, interpretato da Chazz Palminteri, si accorge con un’intuizione di come il racconto di Kint fosse solo una finzione improvvisata traendo spunto da alcuni appunti appesi al muro della centrale (il nome dell’avvocato Kobayashi, ad esempio, è impresso sulla tazzina da caffè di porcellana dalla quale sta bevendo l’ispettore). Poco dopo arriva in centrale un fax con l’identikit del ricercato numero 1, Keyser Söze, che rivela come Söze, in realtà, sia proprio Verbal. Ma ormai è troppo tardi. Kint, non più zoppicante, si perde tra la folla e sparisce inghiottito da un’auto guidata dallo stesso avvocato Kobayashi.
Il titolo del film mi è parso perfetto per aprire questo articolo, tanto è calzante e attuale. Quante volte, ad esempio, per clamorosi errori giudiziari (i “soliti sospetti”), degli innocenti sono stati condannati a periodi molto lunghi di reclusione, se non addirittura alla sedia elettrica? Come dimenticare il caso di Enzo Tortora, volto noto agli italiani per aver condotto uno dei programmi più amati di sempre, Portobello?
Enzo Tortora fu vittima di false testimonianze da parte di alcuni pentiti mafiosi. Venne quindi arrestato in una camera d’albergo nel 1983 (una vita fa, ma solo in apparenza), accusato di essere affiliato a una associazione camorristica, la Nuova Camorra Organizzata. La vicenda si trascinerà per tre anni, gran parte dei quali Tortora li trascorse in carcere. Una volta scagionato, ma defraudato della dignità, non fu più lo stesso: emaciato, svilito, privo di forze. Estremamente provato, morì nel 1988, appena un anno dopo la sua definitiva assoluzione.
L’elenco potrebbe continuare citando ad esempio il caso di Sacco e Vanzetti (di cui non sto a ricordare la storia, già nota ai più). A cinquant'anni esatti dalla loro morte, il 23 agosto 1977, il Governatore dello Stato del Massachusetts riconobbe ufficialmente gli errori commessi nel processo, riabilitandone la memoria ai posteri. Nel 2016, infine, Amnesty International lanciò una campagna per i diritti umani nel mondo, in memoria di Sacco e Vanzetti, culminata col brano Here's to You dedicato da Joan Baez ai due nostri compatrioti, giustiziati sulla sedia elettrica nel lontano 1927.
Un ultimo caso (oggetto di ampia letteratura) la cui storia è stata anche riversata in celluloide, riguarda i 4 di Guildford di cui fece parte Gerry Conlon, impersonato dall’immenso Daniel Day Lewis nel pluripremiato Il nome del padre. I quattro ragazzi vennero arrestati nel 1974 per l’attentato dell’Ira in un pub di Guildford, dove morirono 5 persone. Vennero rilasciati solamente quindici anni dopo e ritenuti innocenti. Perfino Tony Blair scrisse una lettera di pubbliche scuse.
Torniamo alla finzione (ma fino a un certo punto) citando due clamorosi esempi di film, non certo dei blockbuster, dove viene dipinta mirabilmente la figura del “mostro”, lo stesso mostro da sbattere in prima pagina e condannare solo sulla base di false dicerie, sospetti (“soliti”) e malelingue. Il primo è Il Sospetto, scritto, diretto e prodotto da Thomas Vinterberg, con la magistrale interpretazione di Viggo Mortensen che gli è valso il primo premio a Cannes nel 2012. La vicenda mi tocca personalmente perché l’attore statunitense impersona Lucas, che vive una vita tranquilla, è separato dalla moglie e svolge il ruolo di educatore in un asilo nido di un piccolo paese (io stesso ricopro il ruolo di docente da ventuno anni). Sennonché, un giorno Klara, una bimba di soli quattro anni, gli dona un cuore fatto di piccole perline, con annessa una lettera che l’insegnante, giustamente, respinge prendendone le dovute e opportune distanze. Vistasi “rifiutata”, la bimba descrive alla direttrice dell’asilo, con dovizia di particolari, le parti intime del maestro usando le parole sentite a casa sua dagli amici del fratello mentre stavano visionando materiale pornografico. Apriti cielo…
Scattano le indagini e Lucas viene arrestato con l’accusa di pedofilia, salvo poi essere scarcerato perché il fatto non sussiste. Nonostante tutto, però, la comunità (siamo in un piccolo paese) non supera la barriera di diffidenza che nutre nei confronti di Lucas al punto da proibirgli l’accesso ai luoghi pubblici del paese, uccidendo la sua cagnolina e, di fatto, isolandolo. Tuttavia, col tempo, il padre della bambina (Klara), amico di vecchia data di Lucas, finisce per credergli riappacificandosi con l’amico. Il finale, che scelgo opportunamente di non rivelare, getta un velo di sconforto sull’intera vicenda dal momento che il sospetto non verrà mai del tutto cancellato. La vicenda è raccontata con un piglio narrativo incalzante, una fotografia gelida, come l’accoglienza riservata al protagonista del lungometraggio e una regia puntuale e senza fronzoli.
L’ultimo esempio riguarda un film uscito in sala recentemente (2025) intitolato Il caso Belle Steiner. Atmosfere claustrofobiche, una fotografia tanto elegante quanto cupa e due attori in stato di grazia come Guillaume Canet e Charlotte Gainsbourg.
Il mostro di turno in questo caso è Pierre, impersonato da Canet, perfetto nella sua imperturbabilità, ambiguità e fragilità. Anche in questo caso c’è di mezzo un insegnante (Pierre, per l’appunto), uomo felicemente sposato, la cui vita si stravolge nel momento in cui viene trovata morta in casa sua Belle, figlia di un’amica della moglie. Pierre è l’unica persona presente nell’abitazione al momento del decesso finendo, dunque, per risultare l’unico sospettato. Si tratta, anche in questo caso, di un film di estrema attualità che tocca temi scomodi come la colpa, il sospetto di un’intera comunità e, di conseguenza, la pressione sociale che si abbatte sul presunto mostro. I dialoghi sono scarni (com’è tipico dei film francesi): non una parola fuori posto, i primi piani intensi, e che finale! Il film non è stato distribuito in Francia, complice anche il controverso coinvolgimento del regista in accuse di molestie su minori..
Mi verrebbe da dire: i soliti sospetti?