Murder Most Foul - InEsergo

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09 Aprile 2020 - Musica

L'elegia di Bob Dylan sull'America di Kennedy, un viatico per l'eternità

Murder Most Foul  
  
“Un saluto ai miei fans e followers con gratitudine per il vostro leale supporto durante tutti questi anni. Questa è una canzone inedita registrata qualche tempo fa che potreste trovare interessante. State al sicuro, state attenti. E che Dio sia con voi”

È il 27 marzo 2020. Bob Dylan così si esprime dalla pagina del suo account Twitter. Murder Most Foul è un fulmine all’improvviso, il passaggio imponderabile di una cometa. Il mondo è alle prese con la pandemia da Covid-19, il cielo non è mai stato tanto cupo e tetro dai tempi della Seconda guerra mondiale. Il menestrello di Duluth, al contempo, non pubblica materiale nuovo dal 2012, otto lunghi anni. Sul frontespizio del nuovo brano compare l’effigie di John Fitzgerald Kennedy, compito, vagamente sorridente, forse malinconico. Dylan parla poco, pochissimo. Raramente si concede per un’intervista. Quando apre bocca intaglia le parole col senso, non è mai casuale o aleatorio. Come giustificare allora una ballata di 17 minuti (la più lunga scritta in carriera) sul delitto più infame, sul giorno in cui l’America perse per sempre la sua innocenza, mentre l’attualità racconta dell’avanzata perniciosa di un nemico invisibile? Mentre la stessa America diviene il paese più infetto del pianeta? Apparentemente nulla, il grido di Dylan sembra anacronistico e fuori dal tempo. Bastano però pochi minuti, i primi attimi immersi nell’ascolto, per intuire (e successivamente comprendere) quanto Murder Most Foul sia in realtà una scialuppa di salvataggio nel mare in tempesta, un toccante regalo a un’umanità vessata e ferale.  

Era un giorno oscuro a Dallas, novembre ‘63
Un giorno che vivrà per sempre nell’infamia
Il Presidente Kennedy era all’apice
Un buon giorno per vivere e anche per morire
Condotto al macello come un agnello sacrificale

È un istante ripiombare a quel 22 novembre 1963. Su un tappeto di archi e pianoforte, con le percussioni appena sfiorate dal feltro, la voce di Dylan si dispiega roca e profonda, sdegnosa, quasi ipnotica. L’infamy speech di Roosevelt è dietro l’angolo, a braccetto con Cavallo Pazzo. L’atmosfera è solenne, il pathos altissimo. Non potrebbe essere altrimenti vista la citazione nel titolo dall’Amleto shakespeariano, storia di un regicidio e del fantasma di un padre: qui Kennedy non a caso è chiamato il re, e la sua morte, assimilata a una decapitazione, incarna il calar delle tenebre sulla storia (l’era dell’anticristo è appena cominciata). Eppure gli anni ’60 sono lì, stanno per rifulgere. Dylan entra ed esce dalle drammatiche istantanee del delitto dipingendo il contesto come un affresco, con pennellate fugaci, clic di interruttori neuronali, bagliori nella memoria del più grande songwriter del ‘900 che nel suo onirico immaginario divengono memoria collettiva.

I Beatles stanno arrivando, vi terranno per mano
Me ne vado a Woodstock, è l’età dell’Acquario
Poi andrò ad Altamont e siederò accanto al palco
Tommy mi senti? Sono la regina dell’acido

Tutto il brano è pieno zeppo di citazioni e rimandi, musicali e cinematografici, storici e letterari. Dylan non si lascia mai tentare dalla semplice narrazione degli eventi e rifugge qualsiasi tentativo di revisionismo storico. Il suo è un ipertesto imbevuto di cultura americana, un racconto a strati che pervade e rapisce, una sorta di matrioska letteraria visionaria, inaudita. Come cinquantacinque anni fa con Desolation Row Dylan immaginava una via della desolazione nella quale l’Occidente e i suoi protagonisti facevano capolino da una visuale surreale e allucinata, qui un intero teatro sfila davanti agli astanti prima di sprofondare nell’abisso.

Non chiedere cosa può fare il tuo paese per te
Dealey Plaza, svolta a sinistra
Vado all’incrocio, chiederò un passaggio
Là dove fede, speranza e carità sono defunte
Addio Charlie, addio Zio Sam
Francamente, signorina Scarlett, me ne infischio

Trovano spazio rimandi esoterici (giocati il 9, giocati il 6 - simboleggianti rispettivamente completezza e armonia) e massonici (le 33 volte e forse più di visione del filmato di Zapruder). Poi all’improvviso la cesura. A trentasei ore dal giorno del giudizio, con l’anima di una nazione che è stata lacerata e si sta incamminando verso un lento declino, Dylan invoca Wolfman Jack, noto disc-jockey americano, qui immaginato preda di una mistica glossolalia. Solo la musica, la giusta colonna sonora, può salvare l’umanità dallo sprofondo o perlomeno accompagnarvela con dignità. Ed ecco che la ballad sconfina metamusicalmente, si fa colonna sonora, pellicola cinematografica, una salmodia per la fine del mondo a ritroso dai ’50 ai ’70 dove dentro finisce di tutto, dal rock al jazz, al gospel, a Marlon Brando, agli inni patriottici, a Beethoven, alla guerra civile americana. E soprattutto c’è la musica nera.

Suonala per il reverendo, suonala per il pastore
Suonala per il cane senza padrone
Suona Oscar Peterson, suona Stan Getz
Suona Art Pepper e Thelonious Monk
Suona Nat King Cole, suona “Nature Boy”
Suona “Down In The Boondocks” per Terry Malloy

L’omicidio del presidente JFK per Dylan e la sua generazione ha rappresentato un trauma indelebile, uno shock collettivo del tutto assimilabile alle vicende attuali. Ma la contemporaneità dell’elegia di Murder Most Foul potrebbe essere ricercata anche altrove: per esempio nel richiamo agli ideali progressisti della New Frontier, mentre il potere, accentrato come mai nelle mani di un’oligarchia invisibile, stringe le maglie del controllo e della limitazione delle libertà individuali per il tramite sempre più distopico della tecnologia e delle task force a uso e consumo del pensiero unico. Nella mente del premio Nobel e premio Pulitzer Bob Dylan, già insignito del massimo riconoscimento civile americano (la Medaglia Presidenziale della Libertà), la musica mantiene lo stesso effetto taumaturgico e salvifico di un tempo, anche dinanzi all’Apocalisse. Una lezione quanto mai attuale per una collettività che ne ha fatto invece pura tappezzeria sonora, che ha immolato arte e cultura per il mercimonio dell’inutile, dimenticando la lezione del Piccolo Principe (l’essenziale è invisibile agli occhi) e che ora dispone solo di una smorta futilità da opporre all’onda di piena prossima ventura.
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