Schiavi e padroni del non-finito
Nella Galleria dell’Accademia di Firenze puoi fare una cosa insolita: sederti ai piedi di quattro statue di marmo e ascoltare la loro voce. Se attenzione e sensibilità saranno in completa sintonia, avrai inoltre la possibilità di vedere i loro muscoli tendersi in impercettibili movimenti e il sudore colare fino alla base. L’assoluta mancanza di artefatti tecnologici e la loro età (più di 500 anni) ti porteranno a considerare impossibile ciò che ho affermato poc’anzi, ma ti assicuro che l’unica cosa davvero difficile di tutta la questione è sedersi per terra e mettersi in ascolto.
Sedersi per terra in un museo davanti a un’opera è arduo perché è scomodo, perché può essere d’intralcio o perché pare brutto, in fondo lo fanno i bambini e non gli adulti. Soprattutto perché non c’è tempo. Cioè: se appoggio i glutei sul pavimento e mi metto in ascolto come un bambino, il tempo non conta più nulla, non c’è. Ma io sono un adulto e il tempo è il mio padrone.
La seconda difficoltà risiede nel mettersi in ascolto, per la semplice convinzione che sia solo l’orecchio l’unico organo di senso preposto ad assolvere a questa funzione. E di conseguenza che solo gli occhi possano vedere, le dita tastare, la bocca gustare, il naso annusare. L’iper-specializzazione e la competitività nel nostro vivere non solo non permettono alla mano destra di sapere cosa fa la sinistra, ma hanno inculcato tra le due un male ancora peggiore: l’ansia del controllo e la paura di perdere il ruolo di leader del settore. L’orecchio di un adulto perfettamente inserito nell’ingranaggio sociale non permetterà mai all’occhio o all’epidermide (peggio ancora a qualcosa di più interno e indefinibile) di ascoltare.
“Quando a proposito di un suono, mi viene chiesto “Come hai fatto a sentirlo?”, io rispondo “Non lo so, lo sento attraverso il corpo, lo sento aprendomi. E invece tu come hai fatto a sentirlo?” Chiedo di rimando. “Beh io lo sento con le orecchie”. “In che senso con le orecchie? Cos’è che senti esattamente?”. Ho sperimentato che quando una persona cosiddetta udente riceve la stessa domanda che ricevo io, non sa davvero rispondere.”
(Evelyn Glennie, percussionista sorda).
Quindi tutte le statue di marmo parlano e sudano? Può darsi, ma dipende dall’artista, da te e da un’essenza misteriosa e insondabile da noi chiamata Arte, la quale, come un vento improvviso investe in momenti distinti tutti e tre i soggetti che, consciamente o meno, si fanno canali: artista, opera e osservatore. Ad ogni modo le quattro statue della Galleria dell’Accademia di Firenze, parlano e sudano. Sono i cosiddetti Prigioni o Schiavi, scolpiti da Michelangelo Buonarroti agli inizi del ‘500, inizialmente destinati alla colossale tomba di Papa Giulio II e poi rimasti incompiuti. Insieme alla Pietà Rondanini, conservata nel Museo del Castello Sforzesco a Milano, fanno parte del cosiddetto non-finito michelangiolesco.
I motivi del non-finito artistico possono essere molti, dalla volontà espressiva dell’autore al semplice imprevisto, ma l’aspetto curioso sta nell’attrattiva che l’incompiutezza e l’indefinito esercitano in chi osserva, come se si fosse coinvolti nel processo artistico, continuando l’opera con la propria immaginazione. Non più mio o suo, ma nostro, di tutti. Pare fossero questi i desiderata di Gaudì per la Sagrada Familia.
Leonardo Da Vinci, vicino agli ideali neoplatonici, era consapevole dell’imperfezione dell’arte umana di fronte a quella del creato, per questo i suoi disegni e abbozzi sono numerosissimi e poche le opere davvero compiute. Meticolosa, inquieta e perennemente insoddisfatta, la sua mente viaggiava in sfere talmente alte da essere irraggiungibili persino dalla sua mano. La stessa Gioconda, l’opera d’arte più conosciuta e attraente al mondo, ritoccata di continuo fino alla sua morte (e quindi mai consegnata al committente), è un non-finito.
Davanti a un dipinto di Cezanne, pittore post-impressionista, vedresti il soggetto appena accennato, colto con pochi tratti di colore. Se potessi sederti per terra e ascoltarlo, il soggetto (quale che sia) ti direbbe che quella è la sua essenza, l’unica che si può cogliere, perché tutto il resto è inafferrabile, mutevole.
Se poi riuscissi anche a chiudere gli occhi (e mi rendo conto di chiederti davvero troppo), potresti sentire dei passi avvicinarsi e una presenza poggiare le chiappe per terra accanto alle tue. Ti direbbe che anche lui, in un suo libro, ha voluto trastullarsi col non-finito. Il libro è Se una notte d’inverno un viaggiatore e lui, Italo Calvino. Il protagonista, guarda caso, sei tu. Sì, non è il mio solito giochetto, sei proprio tu “lettore” che compri il libro e comici a leggerlo ma, per un errore di stampa, dopo il primo capitolo la storia si interrompe sul più bello e ne inizia una nuova, completamente diversa, scritta da un altro autore in un altro stile. E così via per ogni capitolo, errori di stampa su errori di stampa e tu alla ricerca di ciascuno dei numerosi libri non-finiti racchiusi dentro, per poi arrivare a una conclusione che…
Nella quotidianità non portare a termine le cose ha connotati solitamente negativi, che vanno dalla più comune procrastinazione, conseguenza di insicurezze, paure e bassa autostima, agli estremi dell’atelofobia, ovvero fobia dell’imperfetto, che spinge chi ne soffre a una ricerca ossessiva e perennemente insoddisfatta della perfezione. Giunge quindi benefica la riflessione dello psicologo Alessandro Mascherpa, che associa il non-finito al concetto di confine: “Che cosa succederebbe se cominciassimo a vedere il mondo, e le sue differenze, in modo sfumato e continuo anziché nitido e discontinuo? Che cosa accadrebbe se al solito modo di vedere le cose affiancassimo anche una visione in cui i confini non esistono, ma esistono solo passaggi graduali e sfumati, in cui il senso stesso dello stacco tra una cosa e l’altra si verrebbe a perdere?"
Dopotutto Ulisse, per salvarsi da Polifemo (che ha un unico occhio, quindi metafora di una visione ristretta, chiusa, ottusa, non profonda), si non-definisce Nessuno (un po’ come Calvino che nel suo libro si annulla nei diversi autori). Si chiede Piergiorgio Caselli: “Potrebbe Omero averci dato un indizio per disorientare l’ego e salvarci dalle sue illusioni?”
Seduto accanto ad Atlante, uno dei Prigioni, osservo le mie domande tendersi con i suoi muscoli. Il dialogo si fa ricerca interiore, immedesimazione: il suo sforzo arcano per liberarsi dalla pietra grezza fa da specchio a quei blocchi di cui mi percepisco schiavo. Monito e metafora del vivere inconsapevole. Con Atlante, di cui ancora oggi continuo a sentire la voce profondissima, il non-finito sfuma in infinito. Marmo vivo in continuo divenire.
“Non ha l’ottimo artista alcun concetto, che il marmo in sé già non contenga.”
(Michelangelo)
Concludo citando l’opera volutamente indefinita dello scultore Medardo Rosso intitolata L’uomo che legge, proprio come te che nel momento presente di questo infinito gerundio stai leggendo di te che nel momento presente di questo infinito gerundio stai leggendo di te che…