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12 Gennaio 2022 - Cinema

La rinascita della cinematografia horror in forme nuove

New Wave Horror
  
Il genere horror ha conosciuto la sua epoca d’oro a cavallo tra la fine dei ’70 e la metà/fine degli anni ’80 del secolo scorso. Film come L’esorcista, Shining, Carrie, Rosemary’s baby, Evil dead (da noi grossolanamente tradotto in La Casa), Suspiria, Halloweeen, Nightmare, Venerdì 13, Non aprite quella porta vengono non a caso considerati classici senza tempo. Alcuni di questi titoli sono stati girati da grandi registi che si sono cimentati con le atmosfere tipiche del genere, realizzando veri e propri cult movies: mi riferisco a De Palma, Kubrick, Polanski.
 
Fino a qualche anno fa l’interesse per l’horror era alimentato da programmi che, incredibilmente, venivano trasmessi dalle nostre TV nazionali seppur in seconda serata. L’onda lunga non si era ritratta, allungandosi anzi a colpi di sequel, secondo una rassicurante e sperimentata formula che riscuoteva grande successo ai botteghini senza tuttavia rinverdire i fasti del recente passato. Sembrava si andasse avanti di rendita, a esclusione di alcune piacevoli eccezioni e dei titoli proposti da grandi registi come Carpenter, Craven, Argento, Romero. La svolta arrivò a metà anni ’90. Nel 1996 l’ultimo lungometraggio di Wes Craven, Scream, raggiunse le sale cinematografiche sparigliando le carte di un genere che sembrava impantanato su se stesso. Il film di Craven può essere definito, a ragione, una sorta di spartiacque che sancisce per così dire l’anno zero del cosiddetto new horror. Alcune componenti del film si riallacciano alle consuetudini del genere, tuttavia il killer di Scream non uccide per sadismo, ma per “gioco”. Scream riesce a essere tanto ironico quanto cruento e Craven sembra quasi farsi beffe di determinati stilemi, destrutturando uno schema che sembrava già ampiamente consolidato.
 
Più o meno nello stesso periodo si impose prepotentemente, prima in Oriente e poi su larga scala, il cosiddetto J Horror, dove J sta per Japan. Registi come Hideo Nakata (Ringu, poi tradotto negli USA in The Ring con il noto remake di Gore Verbinski) e Takashi Shimizu (Ju–On: The Grudge) sono gli esponenti di quello che potremmo definire un “sottogenere dagli occhi a mandorla”. I film di Nakata e Shimizu sono infestati da spiriti (tematica molto sentita nel Sol Levante) e da giovani donne con lunghi capelli neri, di bianco vestite e in cerca di vendetta. Questi lungometraggi riscossero un successo talmente clamoroso da incuriosire e, soprattutto, ingolosire, l’industria cinematografica americana che mise in cantiere una serie di remake, sequel e prequel dal taglio per così dire più europeo. La white lady, come si diceva, era divenuta la vera protagonista: donne in giovane età, bambine in alcuni casi, che prima di passare a miglior vita l'avevano perso in circostanze brutali. L’elemento spettrale del fantasma si lega indissolubilmente a quello dell’acqua, da cui l’epiteto di wet dead girl. Il fatto che questi spiriti abbiano tutti lunghi capelli neri non è affatto casuale: in Giappone i capelli lunghi e neri sono ritenuti portatori di male, premonitori di qualcosa di spaventoso. Un’altra caratteristica tipica del Japan Horror è l’uso magistrale delle pause, fondamentali per incrementare a dismisura il fattore suspense (“timing is very important”, ha dichiarato in tempi non sospetti Takashi Shimizu).
 
Un altro cineasta che ha donato nuova linfa al genere è senza dubbio Rob Zombie, cantante del gruppo metal White Zombie. Nel 2003 esordì alla regia con La Casa dei 1000 corpi, storia cattivissima, cruenta, decisamente poco politically correct. La censura americana si mise come al solito di traverso (il film venne bandito ai minori di 17 anni) e la Universal, che avrebbe dovuto distribuire il film, fece dietrofront temendo un sonoro flop. Dell’opera si occupò la Lionsgate, che si accollò anche il sequel, La Casa del Diavolo, nonostante il primo capitolo non fosse stato accolto in maniera benevola dalla critica specializzata. Il pubblico, invece, finì per osannare il “nuovo Messia” dell’horror, premiandolo con 16 milioni di dollari di incasso ai botteghini. Zombie è una ventata di aria fresca: fotografia vintage di una bellezza disarmante, ironia nera, colori che ci trasportano direttamente negli anni ’70, un modo di girare nuovo e altamente adrenalinico. Ritengo che la sequenza finale di La Casa del Diavolo (che vi invito a cercare sul web) sia di una bellezza abbacinante: l’iconica Free Bird dei Lynyrd Skynyrd accompagna “i cattivi” a bordo di un’auto crivellata dai colpi della polizia e la scena deflagra con il conforto di uno slow motion da far tremare i polsi. I film di Zombie sono tutti accumunati dal sangue che scorre a fiotti e da scene ai limiti del raccapricciante senza mai apparire artefatte. Anche le sceneggiature appaiono crude, come le immagini, ma dannatamente vere.
 
In tempi più recenti i nomi nuovi dell’horror moderno hanno i volti e le regie di Ari Aster, Jordan Peele e Robert Eggers.
 
Aster debutta con Hereditary nel 2015. A differenza della maggioranza degli horror moderni, invasi da jumpscare e sceneggiature ai limiti del risibile, Aster sceglie di agitare lo spettatore con suoni ambientali (rumore delle foglie, soffio del vento), respiri affannosi, costruendo la suspense sequenza dopo sequenza attraverso atmosfere insostenibilmente claustrofobiche. Mentre Hereditary è un horror prevalentemente notturno e silenzioso, Midsommar si svolge integralmente alla luce del sole (in questo aspetto ricorda il capolavoro di Pupi Avati La casa dalle finestre che ridono) e le sequenze sono spesso sottolineate dai canti nordici di una setta che risiede in un villaggio sperduto nel Nord Europa.
 
Robert Eggers esordisce nello stesso anno di Aster con The Witch, film stilisticamente impeccabile, esteticamente stordente, che tocca i temi della superstizione e del delirio religioso con un taglio diverso rispetto al manifesto The Village di M. Night Shyamalan ma con uno stile altrettanto fluido e dettagliato nella ricerca dei particolari. Con il successivo The Lighthouse Eggers si imporrà prepotentemente al vaglio della critica, girando in 16/9 e ottenendo una candidatura agli Oscar per la splendida fotografia (fatto piuttosto inconsueto per un film di genere). The Lighthouse è visionario, carico di simbolismi e rimandi epici (i miti di Proteo e Prometeo che si fondono) mentre il finale, avvolto tra gli effluvi dell’alcool, è a dir poco frastornante.
 
Chiudiamo questa carrellata con l’ultimo esponente del new american horror, Jordan Peele e il suo cinema impegnato e pregno di connotati politici. Nei primi due lungometraggi, Scappa - Get Out e Noi, Peele denuncia il capitalismo americano e le disuguaglianze sociali in maniera tanto elegante nella messinscena quanto cruda per gli effetti visivi adoperati. Noi è ricco di implicazioni politiche e sociali (Us, il titolo originale, è anche l’acronimo di United States) tanto da esser stato definito come un vero e proprio film politico mascherato.
 
L’horror è dunque più vivo che mai: con questa breve dissertazione crediamo di aver dimostrato come in questi anni siano in atto diversi tentativi di riscrittura ed elaborazione di questa branca del cinema, al punto che definirla “di genere” suona, sempre più spesso, riduttivo.
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