Quel tema per la Maturità - InEsergo

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22 Giugno 2023 - Attualità

Di tempo, attesa e altre sciocchezze
 
Quel tema per la maturità
 
Non sappiamo più attendere. Tutto è diventato istantaneo […] Scrivo una mail e attendo la risposta immediata. Se non arriva mi infastidisco: perché non mi risponde? Lo scambio epistolare in passato era il luogo del tempo differito […] Per non dire poi dei sistemi di messaggi istantanei cui ricorriamo: WhatsApp. Botta e risposta […] Chi ha oggi tempo di attendere e di sopportare la noia? Tutto e subito. È evidente che la tecnologia ha avuto un ruolo fondamentale nel ridurre i tempi d’attesa. Certo a partire dall’inizio del XIX secolo tutto è andato sempre più in fretta. L’efficienza compulsiva è diventato uno dei tratti della psicologia degli individui. […] Eppure, ci sono ancora tanti tempi morti. […] Aspettiamo nelle stazioni, negli aeroporti, agli sportelli, sia quelli reali che virtuali. Attendiamo sempre, eppure non lo sappiamo più fare. Come minimo ci innervosiamo. L’attesa provoca persino rancore. Pensiamo: non si può fare più velocemente?
Marco Belpoliti, Elogio dell’attesa nell’era di WhatsApp, in la Repubblica, 30 gennaio 2018

Nell’articolo di Marco Belpoliti viene messo in evidenza un atteggiamento oggi molto comune: il non sapere attendere, il volere tutto e subito. A partire dal testo proposto e traendo spunto dalle tue esperienze, dalle tue conoscenze e dalle tue letture, rifletti su quale valore possa avere l’attesa nella società del “tempo reale”.


Cari signori della Commissione, chi scrive non è proprio un candidato ma un vecchietto che la sua Maturità l’ha espletata ventinove anni fa. Quando ho visto le tracce di quest’anno non ho potuto esimermi, mi perdonerete. Il tema tre decadi fa mi salvò la ghirba, altrimenti oggi sarei probabilmente ancora lì, a scontrarmi con il martirio matematico del giorno dopo. Nel 1994 mi aggrappai alle mutande di Calvino, alla leggerezza dell’informatica. Oggi avrei fatto lo stesso, mi sarei unito agilmente a quel 43% di studenti che si sono buttati su WhatsApp e non so cosa darei, sinceramente, per leggere qualcuno degli elaborati di questa fantomatica Generazione Z. Certo, ammeterete che il Ministero è stato un po’ fetente a pescare quel pezzo di Belpoliti per la Repubblica. Pure lui l’ha definito una cazzatina dimenticata, sussurrando di essere dipendente, a settant’anni, dalle conversazioni virtuali.
 
Dunque, WhatsApp nasce nel 2009. A occhio e croce i candidati avevano 4 o 5 anni quando la app di Jan Koum e Brian Acton è comparsa sui cellulari. La messaggistica istantanea esisteva già da più di dieci anni. In altre parole, i ragazzi che hanno scelto questa traccia per il loro tema non hanno materialmente contezza di cosa diavolo sia il tempo differito dello scambio epistolare del passato. Quindi di cosa parliamo? Miriamo inermi l’ennesima supercazzola istituzionale ammantata di spirito critico e luminosa morale. Signori, insomma: converrete con me che chi elucubra le tracce sia pervaso da incontinente sadismo. L’invito, poi, a riflettere su “quale valore possa avere l’attesa nella società del tempo reale” è l’apogeo della truffa: è del tutto evidente quanto il candidato sia stato subdolamente indotto con quella frase a officiare la bellezza dei tempi antichi, di quando si andava più lenti e si aveva il tempo di contemplare il librare degli uccelli. Già, non come adesso che possiamo comunicare oltreoceano con un colpo di click. Che sfigati che siamo diventati.
 
Ok, sto estremizzando. Ma se al Ministero volevano sentirsi dire che si stava meglio quando si stava peggio ci sono riusciti benissimo. Mi immagino la scena del candidato tipo, tutto proteso a sproloquiare su WhatsApp all’uscita dalla scuola dopo aver scritto che “sì, la tecnologia ci ha reso tutti più nevrotici, dovremmo rallentare e gustare di più la vita e i suoi tempi morti”. Come no. Andatelo a dire all’adolescente compiaciuto di avere la casa libera quando la ragazzina dopo cinque minuti di chat non dà segni di raccogliere l’invito a raggiungerlo. Andate a dirlo alla mamma quando il suo pargoletto uscito la sera non risponde o non ha la doppia spunta blu. Signori, per comparare due esperienze occorrerebbe almeno portarle entrambe sullo stesso piano esperienziale: l’attesa da una parte, il tempo reale dall’altra. Questi ragazzi dell’attesa posseggono solo il concetto, l’idea, invero sfuocata, di una gran rottura di palle. Poco importa che poi gettino le ore alle ortiche sfruculiando Facebook o Instagram, guardando gli “stati” altrui e scoprendo i reconditi retroscena di questo e di quello. Anche noi spiavamo dal buco della serratura. O no? E non è neppure colpa loro se si sono ritrovati sin dalla tenera età tra le mani le meraviglie silicee, indotti alla narcotizzazione da genitori sempre più frustrati, nevrotici, esauriti (nello spirito e nelle forze).
 
Quindi, per cortesia, un po’ di serietà e di buon senso. Volete dirmi che il sistema educa(stra)tivo nel corso del sacro quinquennio ha indotto i suoi discenti a maturare la consapevolezza del tempo? Il piacere dell’attesa? La gestione dell’ansia e della noia? E se anche fosse, una volta varcata in uscita la soglia scolastica, una volta seduti ai banchi della vita, quali anticorpi pensate possano aver maturato in una società sempre più frenetica, compulsiva, quantitativa, effimera e speditamente tragicomica? Pensate davvero che aver insufflato Seneca basti per prendere consapevolezza del respiro, diluire la schifiltosità nella contemplazione dell’immobile, nell’ascolto profondo della musica o nella lettura morbida e assaporata di un libro di carta? E chi dovrebbe insegnare loro a rallentare? A fluire nel vuoto? Gli adulti, che di un articolo leggono solo il titolo? Gli analfabeti funzionali, che oggi in Italia secondo una stima al ribasso hanno raggiunto il 28% della popolazione? I produttori di film sempre più ansiogeni, conturbanti e vorticosi, perché sennò la gente si addormenta? Gli artisti, i medici, i preti? L’intelligenza artificiale?
 
Ok signori commissari, io sono un vecchietto. Come voi. Abbiamo avuto la fortuna di conoscere il mondo prima di “questo assalto di tecnologia che ci ha sconvolto la vita” (cit. Giorgio Gaber), di vivere il tempo diluito e differito di cui parla il buon Belpoliti. Non siamo ancora sufficientemente rincoglioniti da essercelo dimenticato e siamo abbastanza smart da assumere la nostra dose quotidiana di tecnologia. Ma personalmente non ho la pretesa di insegnarlo a chi ha quasi un terzo dei miei anni, perché io quell’epoca l’ho vissuta, questi ragazzi no. Al limite potremo raccontarlo, rischiando di essere percepiti come mummie decrepite di un’era lontana e antichissima. La scuola non può rivolgere la sua ragione d’essere in direzione ostinata e contraria perché ontologicamente condizionata dal contesto. La scuola dovrebbe educare, ma educare al pensiero, al senso critico. Il tempo è la culla di quel senso critico. I suoi risvolti sono le pieghe del percorso evolutivo dell’essere umano, perché la saggezza sta essenzialmente lì, nel rapporto con il tempo, con l’attesa di se stessi e degli altri. Non c’è qualità nel poco, non c’è umanità nella fretta. Ma io non faccio testo, io sono vintage. E se tutti intorno corrono, mi faccio inevitabilmente bradipo. Che ne dite di una bella partita a scacchi?



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