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24 Ottobre 2021 - Cinema

La psicopatia del controllo (negato) nel cinema di Stanley Kubrick

Come arance a orologeria
  
1971-2021: il 19 dicembre prossimo venturo A Clockwork Orange di Stanley Kubrick compirà 50 anni tondi tondi dalla prima apparizione nelle sale newyorkesi (il resto degli States avrebbe dovuto aspettare ancora un mese e mezzo per goderselo sul Grande Schermo).

Risulta persino banale celebrare, in questa ricorrenza, il film probabilmente più controverso, sicuramente più travisato, del più grande cineasta del XX secolo.

Cosa scrivere di più e/o di diverso rispetto ai fiumi di articoli e saggi che sono già stati pubblicati in queste decadi su Alex e i suoi Drughi? Vorremmo, in questa sede, evitare tutte quelle riflessioni sulle tematiche maggiormente dibattute ed esplicitamente riscontrabili anche da parte dello spettatore meno attento.

Ci piacerebbe invece cogliere l’occasione di questo 50ennale per fare una riflessione più profonda su quello che, a nostro modo di vedere, è il lascito più importante di Kubrick. E cioè il tema che ha attraversato tutta la sua produzione cinematografica e che, com’è caratteristica dei grandi Autori di qualsivoglia espressione artistica, è un tema senza età. Universale. In questo caso, quello del controllo. O, per essere più precisi, del controllo negato. Controllo negato che, ancor oggi più che mai, è tra le principali fonte di ansia, frustrazione e difficoltà esistenziale della Persona.

Com’è noto, Kubrick si è cimentato, sfornando sempre capolavori, con tutti i generi cinematografici possibili: dai noir degli esordi ai film bellici; dalle opere storiche alla commedia nera; dalla fantascienza con risvolti filosofico-sociali alla satira grottesca; e, ancora, dal drammatico al thriller orrorifico. Insomma: un’ecletticità unica e inimitabile.

Come detto, il filo conduttore in opere tanto tematicamente differenti è proprio l’incapacità/impossibilità dei personaggi kubrickiani di afferrare le redini della propria vita e condurla verso i propri obiettivi. Più l’anelato controllo viene ricercato e insistentemente voluto, più il flusso della vita, degli eventi e delle azioni altrui lo distraggono da esso e lo portano, inevitabilmente, alla rovina e/o alla morte.

Questo è l’amaro e frustrante destino di Johnny Clay/Sterling Hayden in Rapina a mano armata; del dott. Humbert/James Mason in Lolita; di Barry Lyndon/Ryan O’Neill e di Spartaco/Kirk Douglas negli omonimi film; e, con conseguenze addirittura devastanti per l’umanità, del colonnello Lionel Mandrake/Peter Sellers ne Il Dottor Stranamore che non riuscirà, nonostante strenui e commoventi sforzi della ragione, a evitare che l’olocausto nucleare si compia.

E il nostro Alex De Large? Beh, se nella prima parte del film si diletterà, in un’assoluta libertà di controllo della propria vita, nel praticare come se non ci fosse un domani il trittico “stupro, ultra-violenza e Beethoven” (cit. dalla tag-line della locandina originale del film), la sua misera fine nella seconda parte dell’opera ci riporterà in modo brutale al controllo negato di cui sopra (o, per essere precisi, al controllo istituzionale sulle vite degli uomini, che, forse, è ancor peggio)
 
Probabilmente però quest’ossessione kubrickiana è espressa in maniera plastica, e al contempo terribile, in Shining: Jack Torrance/Jack Nicholson, totalmente privo di controllo sulla propria vita famigliare e artistica (e quindi esistenziale), perderà completamente il senno (nel plot, ovviamente, anche a causa dell’influsso malefico dell’Overlook Hotel) fino a cercare di compiere il gesto più atroce possibile: uccidere un bambino innocente. Un bambino che per di più è suo figlio.
 
Kubrick affronta il tema anche nel suo ultimo lungometraggio: in Eyes Wide Shut il dott. William Harford/Tom Cruise vaga di notte per New York, continuamente sballottato da eventi sconvolgenti sui quali non ha nessun potere di controllo. E quando, indagando su di essi, proverà a incidere sulla realtà, la sua inadeguatezza si esprimerà in maniera lampante e tragica.
 
Quello che, a questo punto, ci interessa capire è se Kubrick, nell’arco della sua ultraquarantennale carriera, abbia proposto non dico una soluzione, ma quantomeno un modo, una strategia, un atteggiamento di vita che possa contrastare, compensandolo, il terribile destino del controllo negato.
 
Senza addentrarci in ardite esegesi, meglio forse affidarci alle ultime parole messe in bocca al Soldato Joker/Matthew Modine in Full Metal Jacket. Joker (con appuntato sull'uniforme la sua spilla col simbolo della Pace!), al termine della pellicola, ha appena ammazzato a sangue freddo, con un colpo di grazia, una giovane cecchina vietnamita. Il ragazzo, dopo aver premuto il grilletto, si rende tragicamente conto che è diventato esattamente quello per cui era stato addestrato così duramente (e che è descritto in maniera indimenticabile per tutta la prima parte del film): una macchina da guerra, un dispensatore di morte.
 
I marines, concluso lo scontro a fuoco, marciano così nella notte tra le macerie fumanti della città di Hue, intonando come una liberazione la “Marcia di Topolino” (Topolin, Topolin, viva Topolin!, dopo che per tutto l’addestramento erano stati costretti a intonare canti militari inneggianti alla morte da dispensare ai nemici)
 
Joker, fuori schermo, ragiona così:
 
I miei pensieri vanno di nuovo ai capezzoli eretti, alle eiaculazioni notturne, ai sogni bagnati di Mary Jane Ficarotta, alle fantasie dell’immensa scopata al ritorno a casa. Sono proprio contento di essere vivo, tutto d’un pezzo e prossimo al congedo. Certo, vivo in un mondo di merda, questo sì. Ma sono vivo e non ho più paura.
 
La risposta di Kubrick che stavamo cercando potrebbe essere proprio qui, in questo discorso finale di Joker: ciò che maggiormente ci consente di avere il controllo sui singoli momenti della nostra vita, facendocene comprendere fino in fondo il senso, è l'essere vivi, consapevoli di quanto sia grande e bello esistere. È assaporare in maniera consapevole l’attimo. Senza paura, senza l’ansia del controllo, che è poi il sentimento interiore che meno ci consente di sentire la pienezza della vita. E lo strumento principale (il migliore?) per raggiungere tale traguardo è il sesso, cioè l’atto umano che, probabilmente più di tutti, ci fa sentire più vivi e più “presenti”.
 
Una chiave interpretativa che pare essere confermata anche dall’ultimo dialogo dell'ultima pellicola realizzata dal cineasta americano, Eyes Wide Shut.
 
A parlare sono Tom Cruise/William Harford e Nicole Kidman/Alice Harford, nel film marito e moglie:

AH: Sono sicura che la realtà di una sola notte, senza contare quella di un’intera vita, corrisponde alla verità.
WH: E nessun sogno è mai soltanto sogno.
AH: L’importante è che ora siamo svegli e spero tanto che lo resteremo a lungo
WH: Per sempre.
AH: No, non usiamo quella parola. No, mi spaventa, Bill. Ma io ti voglio molto bene. E sai...c’è una cosa molto importante che dobbiamo fare il prima possibile.
WH: Cosa?
AH: Scopare.
 
Già: l’ultima parola, il sigillo dell’ultimo film di Kubrick è stata Fuck. La scopata, atto da “fare al più presto”, è l’azione che può riportare i due coniugi ad avere il contatto con la realtà, per riavvicinarsi e poter tornare ad avere un’esistenza serena, dopo le paurose vicissitudini (reali e di sogno) che avevano attraversato durante tutta la durata del film.
 
In definitiva l’atto sessuale sembra una delle poche azioni, consapevoli e cercate, capace di consentire all’uomo di cogliere appieno il senso delle cose (la verità?). Insomma di riportarlo in linea con il vivere veramente, pur senza confidare eccessivamente sul domani.
 
Per carità, una conclusione che è lungi dall’essere una soluzione. Al limite del sano, e confortante, pragmatismo.


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