Nessun uomo è un'isola
“Nessun uomo è un’isola
Completo in se stesso
Ogni uomo è parte della terra
Una parte del tutto”
John Donne, Meditation XVII
È il 1623 quando il poeta inglese John Donne scrive la Meditazione XVII, meglio nota come No Man Is An Island. La prematura scomparsa della figlia Lucy e l’insorgere del tifo lo spingono all’introspezione profonda e alla ricerca del senso ultimo della vita e della morte. Ne scaturisce una visione olistica del creato che travalica sia gli angusti limiti dell’ego che la percezione particolaristica dell’individuo come blocco di terra a sé stante, separato dal tutto. Il dolore e la sofferenza che procedono da questa visione essenzialmente biologica, nella quale lo spirito è totalmente identificato con il corpo ospitante, sono esclusivamente un’illusione: la macchina umana mira prima alla sopravvivenza e poi alla conservazione. Nel suo agire concepisce il creato come una giungla in cui, ferinamente, il più forte sopraffà il debole e gli altri uomini appaiono come potenziale pericolo fino a prova contraria. Da questa prospettiva meccanicistica e miserevole dell’esistenza discendono l’attaccamento e il senso di possesso, la diffidenza, la sensazione di costante insidia del mondo esterno ai successi e alle individuali conquiste faticosamente conseguite. Ma elevando lo sguardo a un piano più elevato, scollegandolo dalla finitezza corporale, si avverte come l’universo sia in realtà un magma energetico dove tutto è collegato e compenetrato. Ecco perché nessun uomo è un’isola, perché il bene e il male del singolo essere umano si sciolgono in un assieme che prescinde il primordiale egoismo. Qui sta la grande intuizione di John Donne: in questa nuova visione organicistica ogni azione influenza le azioni degli altri, ogni pensiero, ogni singola emozione posseggono una valenza universale purificante o inquinante a seconda della risonanza di emissione. Dunque non far chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te.
“Sotto al vento divenuto onda
Infinita pace
Le isole si stringono le mani
Sotto il mare del paradiso”
King Crimson, Islands
C’era un tempo in cui la musica popolare si sposava con ambizioni colte e istanze più elevate. Squarci di memorie passate da cui emergono copertine immaginifiche, mondi sonori fatati per ripararsi dalla tempesta, poesie e intuizioni di imperitura bellezza. Agli anni degli steccati abbattuti e dell’arte totale appartengono naturalmente i King Crimson, uno dei nomi più importanti del lascito culturale rock del Novecento. Nel 1971 il microcosmo presieduto da sua maestà Robert Fripp completa il cerchio dischiuso tre anni prima: è l’anno dell’album Islands, del ritorno a casa dell’uomo schizoide del ventunesimo secolo non più lacerato dal suo folle odio egoico, ma pronto a confluire nell’armonia disarmante del creato, a ricevere l’abbraccio di cielo e terra, degli oceani e delle loro isole. Prospettiva totalizzante a cui allude già la copertina, una fotografia della nebulosa Trifida nella costellazione del Sagittario, coacervo di solitudini cosmiche slanciate astrologicamente verso l’esterno, verso l’altro da sé.
Terra alberi e ruscelli avvolti dal mare
Le onde strappano la sabbia dalla mia isola
I miei tramonti svaniscono
Prato e radura attendono solo la pioggia
Granello dopo granello l’amore corrode
Le mie alte consunte mura
Che tengono a bada le maree
E cullano il vento
Fino alla mia isola
Bastano poche parole al poeta Peter Sinfield, in quel tempo paroliere del gruppo, per tratteggiare nell’omonimo brano conclusivo dell’album l’onirico profilo di un luogo che luogo non è, di un’isola che non sta da nessuna parte se non nell’interiorità recondita, laddove le mura simboleggiano la trincea dell’io corrosa a poco a poco dall’unica forza cosmica in grado di farvi breccia: l’amore. I King Crimson disseminano l’etere di fiabesca magia, dipingono una linea vocale al di là del tempo e dello spazio, nella quale il cantante Boz Burrell si cala con pathos e straordinario trasporto, supportato dalle pennellate del flauto basso di Mel Collins e del pianoforte del compositore e jazzista Keith Tippett. Nessun’altra scenografia sonora avrebbe potuto essere altrettanto adeguata nell’introdurre velocemente l’ascoltatore in un altrove che durerà per nove incredibili minuti.
Il velo da sposa della mia alba, umida e pallida
Evapora al sole
La rete dell’amore è lanciata
L’isola, nata come rifugio ultimo e inespugnabile dal mondo esterno, analogamente al muro pinkfloydiano, simbolo di patologica protezione e isolamento oltreché di resistenza al cambiamento, si apre a poco a poco fino ad accogliere in sé l’abbraccio delle altre isole e del tutto, in uno stato di abbandono totale. Le immagini incantate e pastorali scelte da Sinfield simboleggiano il progressivo divenire dell’uomo nuovo prefigurato tre secoli e mezzo prima da John Donne, in un continuo rimando sul crinale della storia dell’umanità. Il vento si fa onda, il cielo diviene il mare di un paradiso non più fuori portata, l’amore scioglie la terra. Gli inserti fangosi e profondi dell’harmonium sembrano figurare le sabbie portate via dall’incessante moto marino, la terra che a poco a poco si scioglie sotto i nostri piedi. L’oboe che volteggia intorno alla voce richiama le traiettorie dei gabbiani che planano sulle rocche di granito scagliando i loro richiami. Fino al finale, quando da lontano fa il suo ingresso la pulsazione delicata della batteria a supporto di un mellotron che esplode in tappeti di tale bellezza da chiedersi quali riti di stregonesca ispirazione fossero stati messi in opera in quei giorni nelle sale dei Common Studios di Londra.
Terra ruscelli e alberi ritornano al mare
Le onde lambiscono la mia isola
Portandone via la sabbia
Lontano da me
Seguire a occhi chiusi il fraseggio finale della cornetta, malinconico, immateriale, essenziale. Percepirne il fluire fuori dal tempo, coglierne la fascinazione. Scrivere di Islands non è più un fatto recensorio né musicologico, ma provare a raccontare come la musica sappia perpetrare atti alchemici in grado di modificare la composizione del visibile e dell’invisibile. Nessun uomo è un’isola, nessuna isola è scollegata dalle altre. Spegnete il mondo, fate silenzio. Leggete la poesia di John Donne e poi ascoltate: la magia è intorno a noi. Ci sono ancora molte meraviglie da cogliere prima dell’Apocalisse.