Garrincha, l'uccellino dalle gambe storte - InEsergo

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12 Dicembre 2021 - Storie

Quando il dio del calcio si fece brutto anatroccolo
 
Garrincha, l'uccellino dalle gambe storte
 
Garrincha è stato quel dribbling sulla fascia destra del campo di calcio che hai sempre provato a fare senza mai riuscirci del tutto, nondimeno a Garrincha i dottori avevano detto di non praticare il calcio perché invalido, fisicamente e mentalmente.
 
Nato nel 1933, fu registrato all'anagrafe dieci giorni dopo la nascita come fosse passato inosservato. A dieci anni suo padre, che aveva fama di essere uno dei più grandi ubriaconi della città, lo imbottiva di Cachaça e sigarette, quasi a instradarlo, perché in certi posti sembra che il destino sia segnato ancora prima di materializzarsi. Il figlio del Beone sarebbe dovuto diventare un beone, ne avrebbe beneficiato lo status quo e tutti a dire che si sapeva che avrebbe fatto quella fine. Garrincha viveva scalzo, in mezzo alla foresta, giocava a calcio come nessuno aveva mai visto fare da quelle parti e quelle parti per intenderci è il Brasile, se non la più grande scuola calcistica del mondo sicuramente una delle prime tre. Andava a scuola malvolentieri e aveva le gambe storte, la scoliosi e il bacino fuori asse e queste paradossalmente saranno le sue fortune: praticamente un personaggio di un romanzo di Dickens, però con la spiaggia e la foresta a fare da sfondo.
 
Manè Garrincha arrivava sempre ultimo a tutti i test attitudinali, non brillava per velocità di pensiero, anzi si può dire che non fosse proprio sveglissimo. Eppure, poiché le eccezioni esistono eccome, con la maglia numero “7” della nazionale brasiliana vinse due mondiali, di cui uno in Cile nel 1962 praticamente da solo, ed è storicamente considerato il massimo rappresentante del Futebol Muleke. Garrincha faceva dell'inventiva, dell'improvvisazione il suo modo di vivere il calcio e di giocarlo e tutto sommato applicava la stessa improvvisazione anche nel vivere quotidiano, non era uno che faceva piani, non era un calcolatore, era una scheggia dinoccolata che sapeva fare bene una cosa soltanto. Dicono che ci voglia una vita intera a imparare a essere bravi in qualcosa e forse in questo caso nessun aforisma potrebbe essere altrettanto azzeccato.
 
C'è un aneddoto che spiega bene chi era Garrincha e lo si può leggere nel libro Ode per Manè del giornalista Darwin Pastorin. Dopo la vittoria del mondiale del 1958 l'intera delegazione brasiliana venne ospitata nella residenza del Governatore dello stato di Rio, il quale, dopo un discorso altisonante con cui raccontò le gesta degli eroi della Seleçao, prima di congedare giocatori, staff e giornalisti presenti promise di regalare ai membri della nazionale una villa a Copacabana. Tutti felicissimi, tutti che ridevano e si davano pacche sulle spalle, tranne Garrincha, che aveva tenuto lo sguardo fisso su una gabbietta per uccelli: lui non accettò la villa, chiese al governatore che quel passerotto venisse liberato, decise che quello sarebbe stato il giusto premio per aver vinto la coppa del mondo. C'è poco da stupirsi se le cronache ci raccontano che morì in miseria, ma molto probabilmente in quel momento non lo sfiorò nemmeno la possibilità che liberare un uccellino fosse, quantomeno dal punto di vista economico, ben poco conveniente rispetto a possedere una villa.
 
La sua carriera sarà disgraziata e piena di alti e bassi, dai trionfi con il Botafogo e i mondiali vinti con il Brasile di Pelé agli arresti per ubriachezza, i contratti persi per inadempienza o perché non si presentava agli allenamenti. Garrincha passò nel giro di poco tempo dalla coppa Rimet ai tornei amatoriali in Italia, nei quali ogni tanto si esibiva per un piccolo compenso che fondamentalmente gli serviva a pagarsi da bere, perché lui era così, non gli importava dei soldi, i soldi erano solo un mezzo per continuare a fare quello che gli andava di fare, anche se quello che gli andava di fare per lo più tendeva a ucciderlo. Anche se il mondo è infinitamente grande, il figlio del Beone avrebbe pericolosamente fatto la fine del padre, dando ragione a tutti quegli stronzi che in mancanza di altri passatempi si divertono a togliere la speranza, forzando il destino e imbottendolo di pregiudizi.
 
Ma con il pallone era poesia, fuori dagli schemi, con quel dribbling sempre uguale ma che nessuno riusciva mai a neutralizzare. Nel 1963 Juventus, Milan e Inter provarono a fare una colletta per acquistarlo dal Botafogo e farlo giocare in Italia dividendoselo un anno ciascuno, ma purtroppo l'affare saltò.
 
La sua vita continuò alle meno peggio, dopo aver smesso di giocare non smise mai di farsi fare compagnia dai ricordi ma soprattutto dalla Cachaça. Fu internato un’infinità di volte, perché ci provava a smettere di bere ma proprio non ci riusciva, e il destino proseguì a rincorrere un epilogo inevitabile.
 
Morì di cirrosi epatica e in assoluta povertà a Rio de Janeiro il 20 gennaio del 1983. La mattina dopo la morte su un muro comparve la scritta “Obrigado Garrincha por voce ter vivido” che tradotto significa pressappoco "Grazie per essere vissuto Garrincha”. Sulla tomba qualcuno incise un epitaffio degno della sua classe: “Qui riposa in pace colui che fu la Gioia del popolo”.
 
Se il numero “7” nel calcio possiede una sua mistica è merito di Manè Garrincha, di quell’attitudine allo spettacolo che insieme al goal è la vera essenza dell’arte pedatoria. C’è un ritornello che si ripete stancamente, che ha oramai assunto le parvenze del luogo comune e in quanto tale non significa nulla, per cui il calcio sarebbe solo superficialità e soldi. Il calcio può essere poesia, in alcune occasioni lo è stato ed è stato indubbiamente migliore di certi poemetti autoprodotti. Il calcio è la gioia del popolo e pazienza se gli intellettuali tacciano il popolo di stupidità. Al calcio alla fine ci abbiamo giocato tutti, semmai è un peccato non averci giocato come Garrincha e non aver mai pensato che liberare un passerotto da una gabbia fosse infinitamente più importante di possedere una villa, perché tra il dire che i soldi sono la rovina dell’umanità e rinunciarci per davvero ce ne passa un bel po’.
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