Facciamo finta che io ero…
La locanda ha per parete la roccia viva. È agosto e il sole è appena sceso dietro il versante francese delle Alpi. Ai tavoli scorre il brusio della convivialità come acqua dai nevai. Una coppia di turisti, poco distante da noi, scambia con la cameriera opinioni sulle Olimpiadi. La mezz’età di lui è atletica, mascella sicura, sguardo avanti. La compagna raffinata, anche in abiti sportivi. La cameriera è una giovane del luogo, dai modi discreti e lo sguardo sagace. Accennano tutti e tre all’oro nei 100 metri appena conquistato da Marcell Jacobs.
“Sì bel risultato, ma non è italiano”.
E d’improvviso, come nel racconto “La rovesciata” del nostro Salvatore D’Antoni, il tempo rallenta così tanto che pare congelarsi. Se fosse un film l’inquadratura staccherebbe sui volti dei tre protagonisti e sull’orecchio da giornalista di mia moglie che ha captato sia la frase che l’immediata risposta, affilata ed elegante come la spada di un samurai.
Mentre scrivo posso percepire in anticipo le tue dita prudere e le articolazioni sgranchirsi. Dove dirigerai il dardo verbale e verso chi? Che arma sta diventando la tua tastiera?
Se fossimo al poligono di tiro potremmo scegliere alcuni bersagli: il razzismo, il pregiudizio, l’ignoranza, il globalismo, la solidarietà o il suo contrario: l’ipocrisia solidale. Al centro potremmo applicare le facce dei protagonisti del siparietto: il tizio, la sua compagna, la cameriera, l’orecchio di mia moglie e il senno di poi del sottoscritto che, in quanto maschio, non mi ero accorto di nulla avendo l’unico neurone impegnato a tagliare il cibo nel piatto.
Chi ha detto cosa? Ma soprattutto chi ha ragione? Chi ha torto? Chi prende posizione? Chi fa allusioni?
Le stelle a quasi duemila metri si possono toccare e in questa valle di frontiera c’è un silenzio inumano, cioè quel silenzio a cui l’essere umano non può aspirare. Siamo in Occitania, la lunga lingua di terra priva di confini politici che si estende dalla Spagna pirenaica, attraversa tutta la Francia meridionale e valica nelle Alpi Cozie del Piemonte e in parte nelle Alpi Marittime della Liguria. La “loro” bandiera, presente dappertutto, è la croce di Tolosa, gialla su sfondo rosso. La “loro” lingua, che resiste indomita più in queste valli di montagna che nel resto della Francia, deriva dall’antica Lingua d’Oc e nel “nostro” paese è tutelata da una legge apposita.
Loro, nostro, mio, tuo.
E noi continuiamo a essere solo ciò che abbiamo.
Qualche anno fa il regista Giorgio Diritti girò nella più misteriosa e chiusa di quelle valli, la Val Maira, il film Il vento fa il suo giro (2005), prendendo spunto da una storia vera. Un allevatore francese decide di oltrepassare le Alpi e trasferirsi con la famiglia nel minuscolo paesino di Chersogno (nome di fantasia) per continuare la sua attività. Dopo un’iniziale accoglienza da parte della comunità locale, chiusa e isolata, arrivano le incomprensioni e la convivenza vacilla sempre più. L’unico a rimanere sempre buon amico dei nuovi arrivati è il ritardato del villaggio, cioè colui che suo malgrado non possiede pregiudizi, preconcetti e secondi fini. Il ritardo sociale e culturale è bilanciato da una sensibilità senza filtri, adatta a percepire in modo più limpido e genuino il bene e il male. In loro non vede il male e tanto gli basta. È libero cioè dalla paura.
Ma paura di che?
Il cielo notturno lega desideri a fugaci capelli di luce. Li cerchiamo con la testa all’insù, mentre quella domanda ancora sospesa s’appresta a chiudere la breve parentesi occitana, planata in questo articolo per distarci un po’ dai pruriti da tastiera. Con le dita impegnate a contare le stelle proviamo a tornare con più discrezione alla frase incriminata:
“Sì, bel risultato, ma non è italiano”.
Facciamo finta che eravamo due chirurgi e vediamo se lì dentro c’è qualcosa da salvare.
• Lo sapevo! Uno degli organi vitali è in affanno!
• Quale?
• L’identità.
Il ma sembrerebbe legare il valore di un atleta alla sua nazionalità. Il risultato è buono se è dei nostri. Se non è dei nostri o qualcuno non lo ritiene tale, allora l’obiettivo è trascurabile. Ma nazionalità e identità sono sinonimi?
Secondo l’attuale legge sulla cittadinanza… è meglio non continuare oltre perché io e te, i due chirurgi più bravi del mondo, sappiamo bene che la legge non cura le ferite. E in quella famosa frase intuiamo che l’identità (non di Jacobs, ma di chi l’ha pronunciata) è ferita da moltissimo tempo, forse da sempre. E non lo sa.
• Per le ferite ci vuole un farmaco.
• Solo un farmaco, esimio collega?
• Certo. Obietta?
(Ora facciamo finta che io ero anche un noiosissimo saccente e ti rispondo così).
• Come lei mi insegna il farmaco si concentra sui sintomi, difficilmente va all’origine. Alleviare i sintomi di un’identità ferita e impaurita è come voler spegnere tutte le stelle una ad una.
• E allora come si fa?
• Non ne ho idea, sono un chirurgo per finta! So solo che, in casi come questo, tra i vari farmaci che vengono somministrati ve n’è uno che potremmo definire universale.
• Il paracetamolo?
• No, la Patria.
• La Patria un farmaco!? Che idiozia è questa!
E le dita ricominciano a prudere…
Prima però di mitragliare un animo fanciullo che sta solo giocando all’allegro chirurgo, cerca di sentire cosa provoca in te questo parolone ben vestito. Tutto il corollario di tradizioni e culture non viene messo in discussione, ma solo il sostantivo Patria, nudo e crudo.
(Comincio io e sottolineo che ciò che leggerai sono sensazioni puramente personali, non hanno a che fare con le verità altrui).
Se sto in ascolto mentre lo pronuncio percepisco disagio, un’impercettibile aria stantia. É una parola dura tra i denti, inamovibile, non muta. E in effetti, a torto o a ragione, la Patria è tale se mantiene le cose così come stanno e quando si agisce in suo nome è per ristabilire il maltolto (reale o presunto).
Per il mio fisico e per le mie ferite interiori non funziona e necessito di altre soluzioni senza che questo ne certifichi l’inefficacia in senso assoluto. Ogni farmaco ha lo scopo di salvare e difendere ma, come testimonia la sua etimologia (dal greco pharmakon, ovvero pianta curativa ma anche veleno o droga) può avere effetti indesiderati anche gravi, soprattutto se preso in dosi eccessive o in modi errati. All’origine c’è comunque un’identità ferita e impaurita. Ma da chi e da che cosa?
Da bambino provavo antipatia per il planisfero politico. Con tutti quei colori in netto contrasto mi sembrava qualcosa di innaturale, frantumato e ricomposto male, “un’assemblea di cocci a conversar di vasi” lo definirebbe Niccolò Fabi. Mi incantavo invece scorgendo la parte geografica, viaggiando con gli occhi in quell’armonia di pochi colori che distinguevano i luoghi fluidi, più o meno profondi, dai luoghi solidi, più o meno alti.
Intanto s’è fatto giorno e ci troviamo sul Colle dell’Agnello, al confine tra due bandiere e all’interno di altre due, quella Occitana e quella Europea. Ingarbugliati nei nostri pensieri, impercettibili ospiti nel regno delle Alpi, vediamo il matto del villaggio, arrivato fin qui chissà come, passarci accanto farfugliando supercazzole senza senso:
“Quindi l’identità è Patria? O la Patria è uno dei farmaci? Ma poi la Patria si prende davvero cura dell’identità? Perché se non ti prendi cura di una cosa poi quella cosa alla fine muore, anche se sei un farmaco! E quando l’identità muore tu muori? Mammamia che paura! Avete tutti bisogno di più Cura!!!”
E proprio sul confine mette un piede davanti all’altro e con le braccia tese di lato fa l’equilibrista su quella linea che in realtà non esiste.