A spasso tra i pianeti interiori - InEsergo

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29 Agosto 2021 - Musica

Il viaggio multisensoriale di Elisa Montaldo nel nome della musica
  
A spasso tra i pianeti interiori
 
“Un grande ringraziamento a tutte le persone che non si arrendono e supportano l’arte e la cultura. Abbiamo bisogno di risvegliare le menti e osservare la realtà attraverso occhi aperti per essere liberi e decidere il futuro del nostro mondo”
Elisa Montaldo

Provate per un attimo a immaginarvelo, monsieur Alex Attala. Anziano e distinto signore, figlio primogenito di un’epoca altra, ospite estivo e abituale di un lussuoso albergo svizzero: l’albergo dove lavora la talentuosa e italianissima Elisa Montaldo, emigrata all’estero per vivere di musica. Il vecchio avventore la ascolta per alcuni giorni suonare il pianoforte, poi si avvicina e le dona la melodia del Valse des Sirènes scritta e illustrata di suo pugno. Lo fa con un gesto istintivo, sente che la musicista è dotata della garbatezza giusta per riportare in vita quelle note. Così in effetti andrà, il valzer tornerà a librarsi nell’aria, a uscire dalla partitura. Ma molto ancora sarebbe dovuto accadere: Elisa Montaldo proprio in quei giorni stava pensando a una nuova manciata di pianeti, a incunearsi nel vento cosmico interiore. Aveva bisogno di un punto da cui partire e a cui ritornare, una zona salda sulla terraferma. Nulla poteva essere più adatto di quell’antico valzer delle sirene.

Così è nato Fistful of Planets part II, terzo album solista di Elisa, a sei anni di distanza dal primo pugno di pianeti, a pochi mesi dal gradevolissimo Dévoiler. Progetto ambizioso, multisensoriale, concepito (anche) come messaggio forte e chiaro per un mondo sempre più narcotizzato e appiattito. “Senza musica la vita sarebbe un errore” sosteneva Friedrich Nietzsche, eppure in questa nuova normalità piombataci addosso tra capo e collo non sembra esserci più posto per l’essere umano come anima incarnata in un corpo fisico ma solo per il positivismo del biologicamente corretto. Elisa sfida il mercato, rifiuta la pubblicazione sulle note piattaforme di streaming, investe tempo e denaro in una box fatta in casa che è praticamente uno scrigno di segreti, un portagioie concepito con la collaborazione di due artiste fuori dagli schemi come La Strega del Castello e Delfilm. All’interno della scatola troverete un profumo intenso, vivissimo e fatto a mano, piccoli confetti all’anice, illustrazioni a china, una grafica surreale e antichizzata e tutto un mondo di carta e oggetti da toccare.

L’immaginazione al potere, si diceva nel ’68. Il viaggio comincia da un vecchio grammofono claudicante che riproduce proprio il valzer delle sirene ma che sembra perdersi negli spazi reconditi. È questo il momento giusto per aspergere il profumo della box nell’aria: l’essenza ricorda qualcosa di antico, l’ingresso in un vecchio teatro. L’archetipo sonoro di un’ulteriorità persa nelle profondità infinite si dischiude da subito con Floating/Wasting Life: vibrafono, celesta, mellotron, perfino le campane tubulari e un invito a lasciarsi guidare dalla musica, a sprofondare dentro alla ricerca di un senso. Basta sprecare la vita, il tempo concessoci è sacro e non verrà restituito.

In questa ascesi verso l’alto che sa di purificazione ma anche di distacco dal proprio passato, dall’habitat conosciuto, in una dicotomia per l’artista fortemente autobiografica, la terra sembra mandare segnali che provengono dalle radici. Earth’s Call, prima introdotta da un basso cavernoso e poi abbracciata a una linea di violoncello dall’effigie antica, adempie alla catarsi che disvela la natura magica dell’essere umano, celebrata poi nell’accattivante We Are Magic. L’esosfera di Earth’s Call, grazie anche al contributo di alcuni ottimi musicisti che gravitano nell’ensemble multiforme di The Samurai of Prog, sembra quasi ricordare, come diceva Frank Zappa, che non può esserci progresso senza deviare dalla norma, senza abbandonare la via vecchia.

Haiku, il Pianeta arancione, è un gioiello di bellezza minimale. La natura qui dipinta è quella placida di una rana che si tuffa nell’acqua dello stagno ma anche di forze soprannaturali che rimandano nuovamente alle prerogative più elevate dell’essere umano. Sakamoto è proprio lì, dietro l’angolo, ed Elisa lo omaggia da par suo con una melodia semplice e fortemente evocativa, proprio come l’haiku letterario della tradizione nipponica. La successiva evoluzione sinfonica è di ampio respiro, complice l’onnipresente violoncello e gli impasti vocali multistrato. L’ottimo Ignazio Serventi riprende infine il tema sulla chitarra classica, impreziosendolo liberamente di nuove ulteriori sfumature.

Si giunge così allo snodo definitivo prima della catarsi finale. Feeling/Nothing/Into the Black Hole sono dodici minuti in cui la Montaldo divide la paternità della composizione con Mattias Olsson, percussionista tuttofare, polistrumentista, deus ex machina delle ambientazioni sonore e di tutte le atmosfere del disco. Sprofondiamo in un buco nero apocalittico fatto di dissonanze, frequenze taglienti e ridondanti, lancinanti improvvisazioni di sassofoni (un grandissimo Stefano Guazzo) e pianoforte, perfino la registrazione originale di un dialogo tra astronauti. L’orizzonte è dietro una linea distopica e prossima all’uomo schizoide del XXI secolo, soggiogato a percussioni scandite tanto gelide quanto invadenti. L’abisso è necessario e attualissimo e l’ascoltatore non può eluderlo in quanto viatico per dissodare le paure più recondite e risorgere a nuova vita. Wesak, la festività in cui viene celebrato il contatto con i Grandi Maestri e la gerarchia spirituale bianca, è a seguire un unguento per solo pianoforte che andrebbe ascoltato all’aperto, fissando il cielo.

Come ogni mattina al momento del sorgere del sole/Sarò lì a ricercare il senso/Delle ombre/Degli arcobaleni/Dei fantasmi/E a rimettere l’orologio in orario. Washing The Clouds è il momento della catarsi, delle lacrime liberatorie, di atti d’amore puro e incondizionato. Elisa, sopravvissuta al buco nero e purificatasi attraverso il Wesak, suggella il suo lavoro prima del gran finale con un brano già presente nel precedente Dévoiler e in Beyond The Wardrobe di The Samurai of Prog, vestendolo questa volta di un arrangiamento definitivo, incendiario, mozzafiato. Il solo di chitarra elettrica di Ignazio Serventi, dal gusto vagamente fusion, confluisce in un’esplosione di mellotron e violoncello che non è solo il momento più toccante del disco ma anche il dono della luce a un’epoca oscura. Le nubi possono essere purificate, anche se caliginose, proprio come le anime degli individui. Non poteva mancare la ripresa del Valse des Sirènes a suggellare circolarmente il tutto, questa volta in versione orchestrale e circense, quasi a rievocare una festa di paese, un momento di serenità antico ma fuori dal tempo, la commemorazione della fine del viaggio.

Fistful of Planets part II è un lavoro che si apprezza ascolto dopo ascolto, che va gustato con calma perché pieno di dettagli, rimandi e messaggi in codice. Anche in Italia la musica è vivida e pulsante ma rimane confinata in un sottobosco soggiogato a una marmellata informe di artisti cari al conformismo del mercato. Non è più tempo di rinunciare alla bellezza: si ha bisogno di musica vera e di scelte di campo. Serve amore per le dimensioni immateriali, per l’anima e lo spirito. L’arte deve tornare a svolgere la sua funzione salvifica ma tutto ciò ha un costo pecuniario ed esistenziale. Sosteniamo la musica, il pensiero libero che non si piega al Moloch di quello unico. Proteggiamo la diversità, l’identità irripetibile dell’essere umano. Anche attraverso dischi come questo.



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