Quelle miserabili elezioni
Tra poche settimane, assieme ai miei concittadini, sarò chiamato alle urne per esprimere la mia preferenza ai fini della nomina del Sindaco e del relativo Consiglio Comunale. Un “antipasto” della tornata elettorale nazionale prevista nove mesi dopo (marzo 2023).
Questi appuntamenti imminenti mi hanno riportato alla mente le emozioni provate, da poco maggiorenne, per la mia ‘prima volta’. La programmazione dell’uscita di casa con i miei genitori, l’ansioso controllo, già nei giorni precedenti, della scheda elettorale e poi l’attesa trepidante al seggio, l’ingresso nell’aula scolastica con le urne, la consegna del documento di riconoscimento. La sensazione, plastica, di adempiere a un diritto-dovere. Da buon cittadino. La sensazione di ‘contare’, di partecipare, di scegliere, nel mio piccolo, il mio futuro e le persone giuste da cui farmi rappresentare.
Da quella volta, altre decine di appuntamenti (locali, regionali, nazionali, europei). Quel rito, rivestito di civica sacralità, si è andato progressivamente a svuotare di significato. E di importanza. Sempre più stancamente mi sono recato al seggio, pur continuando a farlo. Ho perso quel brivido, quell’entusiasmo e quell’emozione di gioventù. La consapevolezza, esperienziale e scevra di facili qualunquismi, dell’assenza di qualsivoglia partito e/o personaggio politico capace di rappresentare una visione d’Italia degna di questo nome.
E pensare che la politica non dovrebbe far altro che questo: avere una visione di Paese. Sapere dove lo si voglia portare, di come si vuole che diventi da qui a dieci e più anni. E realizzare ‘semplicemente’ un quadro normativo che faciliti l’andamento di tale visione. Nulla più. Il resto dovrebbe essere normale amministrazione, controllo della cosa pubblica finalizzata a far funzionare i servizi essenziali alla persona (trasporti, sanità, scuola, gestione delle risorse).
A noi italiani, quantomeno a livello nazionale, pare storicamente preclusa la possibilità di poter essere governati da forze capaci di mettere in pratica, concretamente, quel tipo di azione politica, presi in mezzo tra l’incudine di programmi massimalisti (composti da decine, quando non centinaia, di pagine, palesemente irrealizzabili) e il martello di slogan tanto ridicoli quanto irritanti per l’intelligenza media, su temi che rincorrono gli eventi contingenti e la ‘pancia’ dell’elettorato.
In entrambi i casi, di quella concreta visione di cui sopra neppure l’ombra. Poche, ed elettoralmente irrilevanti, le eccezioni.
Proprio pochi giorni fa ho terminato la lettura del capolavoro di Victor Hugo, I Miserabili (1862). Il romanzo, oltre a seguire le avventurose e tragiche vicende dei suoi indimenticabili personaggi, è anche un dettagliato affresco della Francia, e di Parigi in particolare, della prima metà del XIX sec. Se ne descrivono l’architettura, i costumi, le dinamiche sociopolitiche, insieme a tanto altro (persino la struttura della rete fognaria!)
A proposito di visioni, colpisce la lucida, e sinceramente empatica, analisi di Hugo di tutta la moltitudine di popolazione ‘miserabile’, appunto. Senza istruzione, senza prospettive, spesso condannata a condurre una vita di stenti e privazioni, materiali e affettive. Sulla scorta degli ideali che avevano ispirato le due Rivoluzioni Francesi (quella del 1789 e quella di luglio, del 1830), Hugo, in uno dei tanti giudizi storici che lo scrittore francese intervalla alla narrazione fittizia del romanzo, esprime a chiare lettere la ricetta da cui partire per porre rimedio allo sfacelo sociale della Francia.
In primis, l’istruzione e la scienza fatta governo. Ma insieme all’istruzione e al progresso scientifico, l’esortazione di Hugo era per una sorta di Nuovo Umanesimo che ponesse al centro i reietti della società di allora: ex galeotti (spesso troppo duramente condannati in proporzione al crimine commesso), orfani, prostitute, ‘monelli’ di strada, studenti con scarsi mezzi economici.
Soltanto una redistribuzione virtuosa delle risorse e una reale solidarietà sociale avrebbero consentito allo Stato francese di progredire verso un futuro radioso che estirpasse quella condizione miserabile di tanta parte dei suoi cittadini. Così facendo, il resto dell’Europa sarebbe andata a ruota. Infatti, per Hugo, soprattutto dopo il 1789, la Francia aveva assunto l’onere, morale e politico, di nazione-guida del Continente.
Se per giungere a questo risultato fosse stata necessaria la rimozione degli impedimenti tramite un atto di forza rivoluzionario, beh, esso sarebbe stato da considerare legittimo. A proposito leggiamo: L’ostacolo fa fare la schiuma all’acqua e fa ribollire l’umanità. Da ciò i disordini; passati i quali, però, si riconosce di aver percorso un buon tratto di cammino. Fino a che non si sarà stabilito l’ordine, il quale non è altro che la pace universale, sino a che non regneranno l’armonia e l’unità, il progresso avrà per tappe le rivoluzioni.
Indimenticabile, in tal senso, la descrizione della costruzione, e poi della loro strenua difesa, delle barricate parigine durante la fallita rivolta antimonarchica del giugno 1832. Il leader dei ribelli, il giovane Enjolras, durante l’ultimo discorso ai compagni prima dello scontro fatale con l’esercito regolare, arringa i suoi con parole che, lette nel tragico contesto internazionale che stiamo vivendo, suonano tanto utopiche quanto urgentemente necessarie:
Cittadini, vi figurate l’avvenire? Le vie della città inondate di luce, rami verdi sulle soglie, le nazioni sorelle, gli uomini giusti, i vecchi che benedicono i fanciulli, il passato che ama il presente, i filosofi pienamente liberi, i credenti del tutto eguali, per religione il Cielo, per sacerdote Dio, la coscienza umana trasformata in altare, gli odi svaniti, fratellanza di fabbrica e di scuola […], a tutti il lavoro, per tutti il diritto, su tutti la pace, non più spargimenti di sangue, né guerre, madri felici! […] Da un punto di vista politico c’è un solo principio, la sovranità dell’uomo su se stesso. Questa sovranità dell’io sull’io si chiama Libertà. Quando due o parecchie di queste sovranità si associano, comincia lo Stato. Ma nella loro associazione non c’è abdicazione; ciascuna sovranità cede un po' di se stessa per formare il diritto comune, la medesima quantità per tutti; tale identità di cessione, fatta da ciascuno a tutti, si chiama Uguaglianza. […] Giova intendersi bene sull’Uguaglianza, perché se la Libertà è la cima, l’Uguaglianza è la base. L’Uguaglianza, o cittadini, non vuol dire vegetazione che debba giungere tutta al medesimo livello […] ma significa civilmente che tutte le attitudini trovino la stessa facilità di sviluppo; politicamente, che tutti i voti abbiano il medesimo peso; religiosamente, che tutte le coscienze ottengano lo stesso diritto.
Ecco, ai partiti che tra pochi mesi ci chiederanno il voto, io chiederei soltanto questo: leggete I Miserabili e prendete a prestito, come ideale ispiratore del programma politico, quello di Hugo/Enjolras. Fatelo vostro e presentatelo all’elettorato. Così, tale quale, come se fosse un regalo che Hugo ci ha donato.
A chi lo proponesse, il mio voto lo darei volentieri.