Dove vai, vacante?
foto di Michele Lepera
“Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di ieri osserva il tuo corpo oggi.
Se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi.”
(Franco Battiato “Il Cammino interminabile”, da un antico proverbio indiano)
Accade intorno a un preciso periodo dell’anno la fermentazione di una certa frenesia, la cui genesi è sia innata che indotta.
Chatwin fece leit motiv della sua opera letteraria l’analisi dell’irrequietezza nomade che spingeva egli stesso a viaggiare, spostarsi, cambiare e che, secondo la sua ricerca, sarebbe insita (e spesso dimenticata, controllata o addirittura repressa) in ogni essere umano.
Nel suo capolavoro Le vie dei canti (1987), descrive il walkabout degli aborigeni australiani, i quali da tempi remoti di punto in bianco partono, attraversando il continente per mesi a piedi e senza mappe, su vie tracciate solo oralmente e memorizzate, nel corso della sua vita, da ciascun appartenente a un certo clan.
Nel romanzo Chocolat (1999, trasposto cinematograficamente nel 2000), ogni volta che soffia il Vento del Nord la protagonista Vianne, senza pensarci troppo, lascia il luogo in cui si è stabilita, spinta da una forza che non sente necessario contrastare.
Accade così, intorno a un preciso periodo dell’anno, che cominci ad aleggiare, pure qui, pure in noi o nelle chiacchiere che ci circondano, una certa domanda: “Dove vai in vacanza?”
Chi parte elenca toponimi e chi no alza le spalle e sentenzia “Non farò nulla”. Il dialogo però non è etimologicamente sensato.
Vacanza deriva dal latino vacantia che, tramite vacans, rimanda all’essere vuoto, libero, vacante appunto, inteso anche come ruolo o carica priva di un responsabile.
Quel dialogo si potrebbe pertanto tradurre in:
• “Dove ti assenterai? Cosa farai per non esserci? In che luogo, situazione e con chi ti sentirai di nuovo affrancato?”
• “Per un certo periodo di tempo sarò vacante sul mio divano / nella casa al mare / davanti a panorami mai visti oppure anche davanti a te.”
La vacanza non è un moto a luogo ma uno stato dell’essere.
Vuoto, assenza e libertà sono per l’essere umano concetti irrisolti, confusi in quanto spesso fusi insieme e confusi in quanto ambigui e fuorvianti, per non dire taglienti. Facile che desiderarli conduca per paradosso a un’impercettibile e in apparenza innocua prigionia interiore, subdola e appiccicosa come tela di ragno.
Laddove i secondini, nel caso delle ferie, si chiamano partenze intelligenti, aspettative, sorrisi negli scatti, imprevisti, incomprensioni, pioggia; il direttore del carcere ha sul volto le cicatrici di compromessi reiterati per decenni senza equilibrio, di lotte intestine per assecondare o contrastare il compiacimento altrui; sguardi spenti a causa di patti col diavolo a tempo indeterminato e non per forza in ambito lavorativo, rigide convinzioni e relazioni non consapevoli.
Questo non è desiderio di vacanza (la quale avrebbe tutte le possibilità di essere solamente un fare dolce e non un dolce far niente) ma si trasforma, nel senso più letterale possibile, in desiderio di evasione. Significativo quanto tale termine sia di uso comune, nel linguaggio sia parlato che redazionale, come metafora di allontanamento dalla routine e dalle costrizioni quotidiane.
Nel 1948 la Costituzione italiana, stabilì con l’articolo 36 la vacanza obbligatoria: “Il lavoratore ha diritto a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”.
Poco tempo prima in Francia si arrivò a definire Anno I della felicità (L. Lagrange) il 1936, quando divenne finalmente legge il diritto a quindici giorni di ferie e biglietti del treno scontati per tutti. Il diritto-dovere alla felicità per 15 giorni su 365.
Una conquista o una presa per il culo?
Il nono e decimo Domandamento, ipotizzati per gioco nell’articolo I dieci Domandamenti, chiedono in modo esplicito “Cosa ti manca davvero?” e “Dove cerchi la felicità?”.
Il Dio delle ferie aggiungerebbe “Come ci arrivi al momento dello stacco”, “Cosa è successo prima?”, “Quali zavorre interiori ti si sono intrufolate tra i bagagli?”.
Il giorno prima di una partenza il mio umore non è dei migliori. Ogni oggetto da riporre nello zaino assume il peso di tutte le previsioni, le preoccupazioni, le ansie e le dimenticanze.
Nonostante il viaggio sia per il sottoscritto spinta esistenziale, pulsione innata, sublime irrequietezza nomade, la sua preparazione grava sull’anima.
L’etimologia svela il contrasto che provo: il termine deriva dall’antico provenzale viatge, che a sua volta ha origine dal latino viaticum, viatico.
E cos’è il viatico se non l’insieme delle cose necessarie per affrontare un viaggio?
Ecco il punto: come ci arrivo alla partenza e di cosa ho bisogno, cosa mi aspetto e cosa chiedo in cambio? Forse troppo?
In inglese viaggio è travel, il cui termine pare avere origine da uno strumento di tortura, il tripalium, che lo lega quindi alla sofferenza, a una prova da affrontare: ad un certo punto della Storia e per molti secoli, le società del nostro Continente crearono dinamiche tali che spostarsi per lunghi tragitti significava lasciare le proprie sicurezze ed esporsi a imprevisti e pericoli. Nulla era certo, ancor meno il ritorno. Partivano per ragioni ineluttabili quasi solo eserciti, mercanti, pellegrini, disperati, reietti o esiliati. Ora non è più così, ma allora, perché si viaggia?
Non potendo conoscere le tue motivazioni, cara lettrice/caro lettore, mi limito a riflettere sulla corrispondenza che in italiano lega travel al travaglio, la fase finale della gestazione prima della nascita.
Parto
Abbandono il liquido amniotico
Perché sento il cordone che stringe
Mamma soffre il distacco
Ma spinge
E anche io
Che conosco solo il dentro
Ho sete d’aria
Partorisce
Parto ed esco
Sono vuoto ora e nudo
Straniero a nuova luce
Non ne distinguo i contorni
Ma nitida
La vita mi accade