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23 Marzo 2022 - Cinema

L’agonia della civiltà occidentale nel nuovo film di Adam McKay candidato all’Oscar

Don't look up!
  
“In certi momenti è necessario dirci semplicemente delle cose… dobbiamo ascoltare delle cose… intanto stabiliamo ancora una volta che esiste di sicuro un’enorme cometa che è diretta verso la Terra! E la ragione per cui sappiamo che esiste questa cometa è che l’abbiamo vista… l’abbiamo vista con i nostri occhi, usando un telescopio! Per l’amor di Dio… abbiamo persino delle cazzo di foto! Quale altra prova ci serve?! E direi che tutti siamo d’accordo almeno sul fatto che una gigantesca cometa grande come il Monte Everest, che è in rotta di collisione con il Pianeta Terra, non è una cazzo di cosa positiva!

Ma che diavolo ci sta capitando a tutti?! Non riusciamo neanche a comunicare tra di noi! Cosa abbiamo fatto a noi stessi? Come si risolve? Avremmo dovuto deviare la cometa quando ne avevamo la possibilità ma non l’abbiamo fatto… non so dirvi il perché… e ora loro stanno licenziando gli scienziati come me che fanno sentire la propria voce, che si oppongono ai loro piani. E sono sicuro che molte persone, là fuori, nemmeno ascolteranno quello che ho detto a causa dell’ideologia politica in cui credono ma io vi assicuro che non sto da una parte o dall’altra… vi sto solo dicendo come stanno le cose! […] Il Presidente degli Stati Uniti sta mentendo, cazzo! Sentite… anch’io come tutti voi spero in Dio… io spero in Dio che il Presidente sappia quello che fa, spero che si prenda cura di tutti noi… però la verità è che io credo che tutta questa amministrazione sia completamente fuori di testa e credo che MORIREMO TUTTI QUANTI!”

Prof. Randall Mindy, “Don’t Look Up”.


Adam McKay l’ha fatto di nuovo. Un nuovo capolavoro, intendo.

Il regista di Filadelfia (per chi scrive, ad oggi, lo sceneggiatore più talentuoso di Hollywood e uno dei registi più freschi di questo inizio terzo millennio) chiude, con Don’t Look Up (2021) un’ideale trilogia.

Era riuscito già a sconvolgere, e parecchio indignare, con i precedenti La Grande Scommessa (2015) e Vice - L’uomo nell’Ombra (2018). Nel primo il Nostro aveva raccontato, con un ritmo forsennato e un’ironia tagliente come una lama, le dinamiche che avevano portato gli Usa prima, e il resto del Globo dopo, alla più grande crisi economico-finanziaria dai tempi della Grande Depressione del ’29: quella innescata dai mutui subprime del 2007-08.
 
Nel secondo, illustrando i 50 anni (dal 1963 al 2012) della parabola pubblica e privata di Dick Cheney, aveva ricordato all’opinione pubblica americana, senza filtri e facendo nomi e cognomi, le trame, le menzogne e, in ultima analisi, lo stupro della cosa pubblica per finalità private, di tutti quei potenti affaristi camuffati da politici che furono protagonisti di due tra i periodi più bui della storia americana del dopoguerra: le amministrazioni dei Bush, padre e figlio, con tutte le nefandezze da quelle amministrazioni compiute, di cui Cheney assieme a Donald Rumsfeld furono tra i principali artefici.
 
Con Don’t Look Up, McKay, se possibile, fa un passo in avanti: utilizza un evento immaginario, ma assolutamente futuribile (la scoperta, da parte di una semplice ma acuta dottoranda di un’università statale del Michigan, di un’enorme cometa in rotta di collisione con la Terra entro appena sei mesi) per innescare una spirale, tanto apparentemente grottesca quanto tragicamente lucida, di scomposte reazioni da parte di politici, mass media, scienziati, artisti di fama e gente comune.
 
L’opera può apparire meno rigorosa rispetto agli altri film di McKay in quanto, a tratti, volutamente sopra le righe (pensiamo alla figura della Presidente Usa, Janie Orlean/Meryl Streep), ma è sempre padroneggiata saldamente dal regista grazie a una sceneggiatura che gira perfettamente, districando in modo razionale (quindi credibile) e coerente con le premesse e il contesto tutti i nodi cruciali del plot.
 
Non vogliamo rovinare ai lettori il gusto della visione ma sappiate solo che, nelle due ore e passa di durata, McKay frullerà tutti i principali temi socio-politico-economici del nostro Tempo: dall’inadeguatezza della classe politica alla sua dipendenza nei confronti dei reali policy makers della “grande democrazia a stelle e strisce”, cioè delle grandi corporations che la finanziano rendendola ad esse succube; dal servilismo privo di deontologia dei giornalisti tv (interessati solo a rendere frizzanti le loro trasmissioni e a intervistare personaggi telegenici e dal sex-appeal che faccia salire gli indici di ascolto) a un’opinione pubblica narcotizzata dai social e incapace di districarsi dall’infodemia che la travolge.
 
E gli Artisti, sulla “carta” sentinelle del Vero e vigile coscienza dei popoli? Purtroppo nicchiano, interessati solo a comunicare in diretta tv la fine di una love story, e dopo un attimo, pronti a dare in pasto ai followers la notizia della loro riappacificazione (sempre in diretta tv, naturalmente…). E se poi ci scappa anche un mega-concerto sold out alla vigilia della catastrofe, con i fan in delirio, tanto meglio.
 
Un “sistema”, quindi, tale da non far(ci) reagire neppure davanti ai fatti nudi e crudi, ai dati scientifici incontrovertibili che mettono davanti al naso una verità molto semplice: l’imminente estinzione dell’umanità, rispetto alla quale tutto il bailamme messo in scena da McKay ci appare come una danza surreale, accompagnata da brindisi spensierati, su un transatlantico che sta per affondare.
 
Ora, molto banalmente, sostituiamo alla cometa di Don’t Look Up i disastri climatico-ambientali che abbiamo sotto gli occhi, e all’invettiva disperata del dott. Mindy/Leonardo Di Caprio riportata nel nostro incipit, quella con il quale la comunità scientifica tutta, da trent’anni almeno, prova a sensibilizzare politica e opinione pubblica a cercare di cambiare rotta: ne uscirà un’equazione tanto chiara quanto terribile.
 
Un’equazione confermata, proprio pochi giorni fa, il 28 febbraio, dal rapporto Intergovernmental Panel for Climate Change, composto da 270 esperti di clima di 67 Paesi. 3500 pagine che spiegano ciò che abbiamo già davanti agli occhi da decenni: desertificazione progressiva, mancanza d’acqua, calo del rendimento dei terreni agricoli (e conseguente scarsità di cibo in tante aree del Globo), maggior frequenza di inondazioni e altre ‘amenità’. Un rapporto che riassume il fallimento dell’uomo nella salvaguardia dell’Unica Casa in cui poter abitare.
 
Dal Summit sulla Terra di Rio de Janeiro del giugno 1992, passando per i Protocolli di Kyoto del dicembre 1997 e per gli Accordi di Parigi del 2015, fino alla recente COP26 di Glasgow dello scorso autunno, è un rosario di appuntamenti che ci racconta come i singoli Stati e le Istituzioni Internazionali abbiano saputo partorire soltanto obiettivi, agende e programmi non soltanto palesemente irrealizzabili, ma sempre più pateticamente fuori tempo massimo.
 
Comunque, finora tutto bene: basta continuare a tenere la testa bassa sui nostri smartphone, aspettando con ansia il prossimo like o di essere taggati su Instagram. Ma soprattutto, come ci raccomanda la presidentessa Orlean, facendone uno slogan politico per i suoi comizi, ricordiamoci di…DON’T-LOOK-UP! DON’T-LOOK-UP!


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