Quel giorno che Van Basten abbatté l’Unione Sovietica - InEsergo

Title
Vai ai contenuti
ARTICOLI MENO RECENTI

Capitano, mio Capitano

Educazione, ribellione e ricerca del Sè attraverso l'arte e la natura

The Old Oak

Il canto del cigno

Manichini

L'amore oltre il vetro

Quanno chiove (a Dubai)

Tra magia bianca e collaborazioni controverse

E' naturale la vita?

Riflessioni attorno a una favola in musica per il Pianeta Terra

Concerto mistico

Battiato vive: un viaggio musicale tra spiritualità e misticismo

La ferita da ingiustizia

La quinta ferita evolutiva

Attentato di Mosca: Isis o false flag?

Dietro le quinte del terrore

Fuori dalla gabbia della mente

La mindfulness come via per la guarigione e la realizzazione

Ponte Morandi: la verità è un anelito a prezzo di costo

Genova vuole credere nella giustizia. Genova vuole rispetto per i suoi morti. Genova chiede la Verità.
21 Marzo 2021 - Storie

Gli Europei del 1988 e le miserie odierne, quando il calcio diventa metafora

Quel giorno che Van Basten abbatté l’Unione Sovietica
 
Un vecchio trailer asseriva che esistono storie che non esistono. Ecco. Questa è una storia che per infinite circostanze, scherzi del tempo, politica e avanzamento tecnologico appartiene alla categoria appunto delle storie che non esistono.
 
25 giugno 1988: Monaco di Baviera, Olympiastadion, Germania Ovest. Oggi la Germania Ovest non c'è più e lo stadio è ormai in disuso, sostituito da uno più moderno. Il portiere sovietico era Rinat Dasaev, da molti considerato per alcuni anni il migliore interprete del ruolo e che dopo un rapido declino fece una brutta fine. Stessa identica fine fece l'URSS, che sarebbe andata giù insieme al muro di Berlino e si sarebbe portata via anche la guerra fredda. Van Basten smise abbastanza presto con il calcio, circa quattro anni dopo, per colpa di una caviglia che non riusciva a guarire: praticamente niente del momento immortalato dalla foto esiste più.
 
L’istantanea sembra costituita di elementi che ci sono ancora molto familiari: non è in bianco e nero, le divise delle due nazionali sono rétro ma alla fine nemmeno più di tanto, i colori sono vivi, certo non in alta definizione ma vivi nella nostra concezione di imperterriti ed eterni adolescenti millennials. Ciò che è vecchio generalmente si lega alle immagini in bianco e nero, ma la realtà di fatto è che questa foto appartiene a un’epoca apparentemente vicina ma che in verità sta diventando lontanissima come lo scorrere del tempo impone.
 
I cultori di certa fantascienza affermerebbero però che questo preciso momento sia parte del tempo e si ripeta infinite volte, altri teorizzerebbero che proprio a causa di quella parabola impossibile e improbabile di un pallone si attivarono alcune ruote dell'ingranaggio che portarono alla caduta dell'URSS. Non siamo certo qui a sostenere che la fine dell'Unione Sovietica sia stata colpa di Van Basten, però, insomma, chi lo sa. D'altronde viviamo nell'epoca delle teorie, ognuno ne ha una sua e tutte fino a prova contraria sembrano sensatissime fino a quando non le esprimiamo a un interlocutore più preparato che finirà per mortificarci rendendole simili alle macerie del muro di Berlino.
 
Ciò che questa foto mi trasmette è più semplice. Dasaev era un gran portiere, Van Basten sebbene fosse vestito in modo ridicolo era un grandissimo calciatore che si era inventato una traiettoria assurda e arcuata che sorprese e tagliò fuori l’estremo difensore russo annichilendone le ambizioni personali e quelle della sua squadra.
 
La metafora è palese: c'è sempre uno più bravo che farà di tutto per farti fare una figura di merda, e Dio solo sa come inevitabilmente la figura di merda la farai, perché per quanto ci si possa sentire intelligenti, preparati, fighi, belli e competenti ci starà sempre qualcuno in giro per il mondo pronto a darti uno schiaffo tra la nuca e il cervelletto costringendoti mestamente a un bagno di umiltà.
 
Sembra però che la gente brava come Van Basten, magari vestita pure peggio di lui, nemmeno ci tenga più di tanto a ristabilire un certo ordine; sembra che quelli davvero bravi si siano stancati e che tutto resti in mano semplicemente a chi urla più forte, a chi riesce a imporre un’insensatezza da difendere come religione.
 
La società odierna è simile a una partita a scacchi che nessuno ha intenzione di iniziare, chi sta nella propria casella pare rifiutarsi di compiere la prima mossa perché non vuole sporcarsi le mani. Una canzone degli Afterhours parla di alcuni soldatini schierati e pronti alla battaglia, ma la battaglia non comincia mai perché il bambino che doveva dare fuoco alle polveri nel frattempo è cresciuto e i soldatini son rimasti lì fermi da più di vent'anni, si sentono solo urla e minacce. Nessuno fa niente, nessuno azzarda a muoversi per paura di dover forse ammettere che semplicemente non è in grado di fare quello che dice.
 
Le metafore calcistiche sono quelle che mi vengono più naturali, sarà l’abitudine. Il pallone con molta probabilità è l'oggetto al mondo cui sono più affezionato e lo uso per prendere spunto e riflettere su cosa siamo diventati. Urliamo e urliamo ma stiamo fermi, non confutiamo le nostre teorie, non impariamo, non ci mettiamo in gioco. Perdonatemi l'ennesima figura retorica: se il miglioramento delle condizioni degli esseri umani fosse rappresentato da Van Basten che aspetta di essere servito al vertice dell'area, e noi avessimo la palla, probabilmente staremmo ore a discutere con tutto lo stadio di quanto al posto suo saremmo più adeguati, senza naturalmente far partire mai il lancio dal piede.
 
Proviamo paura e immersi nel terrore abbiamo compiuto un passo evoluzionistico non indifferente: abbiamo annullato la capacità critica. E chi se lo sarebbe mai aspettato dissero i dinosauri vedendo spuntare il meteorite.
Torna ai contenuti