Il tempo libero di Bruno Munari
“La più grande libertà nasce dal più grande rigore.”
(Paul Valéry)
“É permesso?”
La porta aperta lascia che la mia domanda penetri senza ostacoli.
“Devi permettertelo tu, non io” risponde sorniona una voce da dentro.
Lo trovo appollaiato a leggere un libro su una poltrona rovesciata. Poi si sposta, la rimette dritta e si accomoda al contrario: le gambe sullo schienale e la testa sulla seduta. Quando si accorge della mia presenza si ricompone: “Chiedo scusa, amo scomodarmi di tanto in tanto e indagare il perché no. In vita non ho mai smesso di farlo e ti assicuro che è come stendere la pasta col matterello, la mente si allarga e può contenere molte più cose”.
La sua stretta di mano mi appare così naturalmente accomodante che tutto il resto non può che esserne una conseguenza e tutto il resto è così vasto che, spiazzato, non so da dove cominciare.
“Qualcosa ti turba?” Mi chiede.
“Sì, non abbiamo molto spazio e c’è troppo di cui scrivere.”
“Qual è il limite?”
“Qualche migliaio di caratteri.”
“Spazi compresi?”
Colgo la provocazione dattilografica con un sorriso.
Invece il suo di sorriso sembra asserire che la mancanza di spazio che percepisco sia solo paura di giocare. Il concetto in qualche modo risuona ma non riesco a vederlo.
Comprensivo, prende per mano la mia difficoltà e mi conduce davanti a una tenda rettangolare semitrasparente che scende dal soffitto fino a terra. Sull’enorme velo è stampata la sagoma nera e ben distinta di un bus con passeggeri.
Attraverso questa tenda intravvedo altre sagome sempre più opache e confuse.
Aggiriamo il primo telo e poi il secondo, il terzo e così via. Come se procedessimo nella nebbia le sagome si svelano nitide una a una: un semaforo, passanti, un’autovettura.
“Esatto, proprio di caligine si tratta. Questo è l’allestimento della mostra dedicata al mio libro Nella nebbia di Milano”.
Senza dire altro lascia che accolga il messaggio (o meglio, il messaggio che serve a me): quando non vedi una cosa, prova a camminarci dentro e i contorni pian piano appariranno.
“Aspettami qui!” Esclama, lasciandomi tra gli strati d’orzata, per poi tornare con in mano un elemento sferico di colore arancione, “Sai cos’è?” chiede. Non rispondo perché mi sentirei stupido, ma in qualche modo intuisco che il vero stupido è chi non si fa domande, soprattutto chi si lascia annebbiare lo sguardo dall’ovvietà. E lui, che stupido non è, mi porge il libretto Good Design dove ha provato a rispondersi.
“L’oggetto è costituito da una serie di contenitori modulati a forma di spicchio, disposti circolarmente attorno a un asse verticale, al quale ogni spicchio appoggia il suo lato rettilineo mentre tutti i lati curvi volti verso l’esterno, danno nell’assieme come forma globale, una specie di sfera. […] L’arancia quindi è un oggetto quasi perfetto dove si riscontra l’assoluta coerenza tra forma, funzione, consumo. Persino il colore è esatto, in blu sarebbe sbagliato. Tipico oggetto di una produzione veramente di grande serie e a livello internazionale dove l’assenza di qualunque elemento simbolico espressivo legato alla moda dello styling o dell’estètique industrielle, di qualunque riferimento a figuratività sofisticate, dimostrano una conoscenza di progettazione difficile da riscontrare nel livello medio dei designer […]” 2
Noto tra le righe, oltre all’elegante autoironia, la sua infinita gratitudine nei confronti della natura, il vero maestro di ogni progettista: rigorosa, funzionale e con un’estetica mai fine a sé stessa. Gli chiedo come si fa a mantenere uno sguardo così acuto e dettagliato anche su un (apparente) divertissement.
“Perché non è un divertissement. E al tempo stesso lo è.”
“Non ti seguo.”
“Come ai bambini sarebbe meglio non dare giocattoli troppo finiti in modo che possano conoscere il divertimento di trovare più soluzioni, anche agli adulti farebbe bene non pensare per loro.”
Accetto l’invito e con fatica cerco di visualizzare un processo mentale che potrebbe assomigliare al suo.
Stupore - Curiosità - Gioco - Osservazione - Metodo - Rigore - Precisione.
Poi mi chiede cosa succede quando togliamo l’origine del processo: Stupore, Curiosità e Gioco.
L’osservazione perde diottrie, il rigore diventa rigidità, la precisione imitazione senza amore e il metodo la ruota del criceto.
“A parer tuo questa versione monca potrebbe essere percepita come una prigione?”
Mentre passeggiamo per la stanza i miei occhi planano su alcune sue opere, tutte accomunate dalla stessa domanda: perché no? Quelle più familiari al pensiero logico come il portacenere Cubo, il letto-casetta Abitacolo (Compasso d’oro nel ’79), le lampade Falkland. Altre, ugualmente rigorose, appartenenti al pensiero magico, filosofico, umoristico: le Sculture da viaggio per personalizzare asettiche camere d’albergo, le Forchette parlanti che imitano il gesticolare tipicamente italiano, l’Agitatore di code per cani pigri o la Macchina per annusare i fiori finti.
“L’arte nell’antica Grecia si chiamava téchne, tecnica; nell’antico Giappone: asobi, gioco. Quindi quello che cerco di fare nella mia attività è di mettere insieme il gioco con la tecnica, il caso con la regola. L’equilibrio degli opposti.” 3
"Posso farti una domanda?”
“Sei qui per questo.”
“Di quante ore erano composte le tue giornate?”
“Stessa identica quantità delle tue.”
“Impossibile.”
“Forse hai ragione. Deve essere merito di questo orologio da polso.”
Guardo da vicino e noto qualcosa di insolito: i numeri, stampati in piccoli dischi, sono liberi di vagare nel quadrante.
“Ti piace? Si chiama Tempo Libero.”
“Ne avrei bisogno.”
La sua risata sembra suggerirmi: lo puoi comprare ma ricorda che possedere un concetto non è viverlo. Poi si mette ad armeggiare di spalle con alcuni pezzi di carta. Quando si gira ha il volto completamente coperto di post-it. Ciascuno è un’etichetta: artista, designer, grafico, architetto, scrittore, scultore, inventore, ma anche bonsaista.
“Mm…mm-mm?”
Non capisco e glielo faccio notare.
Sposta due foglietti dalle labbra e ricomincia: “Mi vedi?”
“No…”
Allora li lascia cadere uno ad uno, osservandone con attenzione gli svolazzi fino al pavimento.
“E ora mi vedi?”
“Sì.”
“E chi sono?”
(Alle domande ovvie si risponde comunque) “Sei tu…”
“Non esattamente”.
Lunga pausa per concentrare l’attenzione, poi riprende.
“Sono solo quello che tu stai immaginando, comprese molte mie risposte (tranne quelle puntualmente accreditate) perché, come avrai letto nel mio libro Fantasia: l’invenzione, la creatività e la stessa fantasia pensano, mentre l’immaginazione…”
“… Vede.”
“Qui non c’è la mia anagrafica, né la mia individualità, ma solo quello che, del mio fare, è rimasto in te. La porta sarà sempre aperta a patto che tu non commetta l’errore di molti adulti (te compreso): non trasformare il gioco in una sterile fuga dal mondo, ma gioca seriamente con le cose e il tuo tempo sarà davvero libero, persino dai problemi di libertà.”
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI BRUNO MUNARI
ARTE COME MESTIERE (Ed. Laterza - 1966)
IL CODICE OVVIO (Einaudi - 1971)
FANTASIA (Ed. Laterza - 1977)
DA COSA NASCE COSA (Ed. Laterza - 1981)
GOOD DESIGN (Ed. Corraini - 1998)
Libri per l’infanzia
LE MACCHINE DI MUNARI (Einaudi - 1944)
NELLA NEBBIA DI MILANO (Emme Edizioni - 1968)
LIBRI ILLEGGIBILI (E. Corraini - 1980)
ALFABETIERE (Ed. Corraini - 1998)
CAPPUCCETTO BIANCO (Ed. Corraini - 1999)
1 Sottotitolo estratto da B. Munari, Fantasia (Ed. Laterza - 1977)
2 Estratto da B. Munari, Good Design (Ed. Corraini 1998)
3 Estratto da Lezioni di design - Tra arte e design, Il caso Munari.