L'uomo e l'AI
15 aprile 2023. La notizia rimbalza in ogni angolo del geoide: Michael Schumacher ha rilasciato un’intervista esclusiva al settimanale tedesco Die Aktuelle. Sono passati esattamente dieci anni dal tragico incidente sulla neve che ha trasformato l’immagine dell’uomo invincibile, fenomeno di Formula 1, in una sorta di fantasma di cui nessuno ha più contezza. Una parabola in perfetto stile Million Dollar Baby che dovrebbe far riflettere sul senso della vita e del transito terrestre. Com’era dunque possibile che il sette volte campione del mondo si fosse riappropriato delle facoltà neurologiche necessarie per sostenere un’intervista?
La magia, se vogliamo definirla così, non l’ha fatta la natura e nemmeno lo spirito, ma l’intelligenza artificiale. Una piattaforma di chatbot, Character.ai (molto simile alla più nota ChatGPT), ha intavolato un dialogo illusorio con l’anima (?) di Schumacher mercè ai chiaroscurali meccanismi del machine learning. Risultato? Solenne sdegno della famiglia e di tutto il mondo giornalistico (e non solo) nonché licenziamento in tronco di Anna Hoffman, direttore della rivista, con annessa spolverata di cenere collettiva. “Non è questo il giornalismo che vogliamo offrire ai nostri lettori”. Grazie, ne terremo conto.
Dunque, vengono i brividi. Ammorbati da una gigantesca corsa collettiva all’ultima diavoleria tecnologica, non ci resta evidentemente che schiantarci di botto contro un muro spesso come la diga di Assuan. Ci manca la rievocazione medianica del Führer e l’intervista a Gesù Cristo su come restare appesi a una croce con resilienza, poi l’opera è compiuta. No, non sono contro la modernità. Il luddismo non mi appartiene. Credo altresì che tutto accada non per caso, ma seguendo anzi una logica indefettibile.
Prendiamo il giornalismo. Copia e incolla da un’unica fonte, quella primaria. La stragrande maggioranza degli articoli che leggiamo in rete, sui portali dell’informazione quotidiana, sono pensati così. D’altra parte occorre fare in fretta, le notizie si rincorrono, la gente guarda l’immagine e legge al massimo il titolo. Sempre che comprenda cosa c’è scritto, ovviamente. Tutto lavoro che un bot potrebbe fare molto meglio, senza pretendere uno stipendio, senza assenze per ferie e malattie. Perché stupirsi dunque se migliaia di giornalisti a breve rimarranno a casa a guardarsi Black Mirror? E saranno in buona compagnia: impiegati, docenti, forse perfino medici.
Quando l’uomo si fa sostituibile, prima o poi verrà sostituito. Abbiamo assistito in questi anni allo spegnersi progressivo di tutta una serie di qualità collettive e individuali che rendono l’essere umano unico e irripetibile. Non voglio elencarle tutte, mi bastano quelle più significative. Empatia, ad esempio. Capacità di calarsi nei panni dell’interlocutore, di intuire il suo problema, di offrirgli (nei limiti del possibile) una soluzione. Dote, quella dell’empatia, che non potrebbe mancare, ad esempio, a chi lavora a contatto con il pubblico, o con una classe di discenti adolescenti. Potrebbe, appunto. E poi la creatività. La capacità di pensare, sentire, immaginare e poi creare qualcosa che non esiste ancora, ma che discende a noi dall’etere, da qualche luogo chimerico eppur reale. Può farlo anche una macchina? Certo, anche meglio di noi, se invece che contattare l’alto, salendo in verticale, frughiamo sul piano orizzontale delle cose, facendo accostamenti di idee e operando sul piano squisitamente mentale, a tavolino, per compiacere e compiacersi.
Nell’ottica della deriva narcisistica di like e visualizzazioni, ciò che conta è il responso, mica l’onestà, la qualità di cuore con cui si è creato. A quel punto, chi meglio di una macchina, di un bot in grado di comparare miliardi di informazioni in mezzo secondo, di scandagliare il web alla ricerca dei trends giusti, può intercettare, finanche anticipare il piacere del pubblico? Giusto e doveroso, quindi, che l’intelligenza artificiale scriva musica e dipinga quadri. Probabilmente saranno capolavori. E non stiamo qui a strapparci le vesti, per carità. Andate piuttosto su Instagram, il social più amato dalle nuove generazioni, a compulsare un po’ di post di Lu do Magalu e Lilmiquela, dieci milioni di followers in due, come vere influencers. Già, perché in realtà non esistono, non ci sono, non hanno alcun corrispettivo nella realtà. Ma in fondo, chissenefrega.
Anche io ho chattato con ChatGPT, lo ammetto. Ho chiesto alla macchina se parlasse italiano e mi ha risposto di sì. Ha cominciato a dialogare con me con una proprietà di linguaggio e una sintassi che vorrei rintracciare in almeno (almeno) il 20% di quello che leggo su internet, dai post sui social agli articoli di testate giornalistiche. Peccato che ciò non accada, che i refusi siano ovunque, che chi scrive abbia ridotto nel tempo l’armamentario delle parole a sua disposizione, turlupinato il vocabolario, introdotto lo schwa per essere più inclusivo. Il bot invece no, lui è inclusivo per natura: fa tutto quello che gli dicono di fare. Tranne qualche piccola imperfezione, migliorabile, i verbi fluivano perfettamente, il tono era gentile, assertivo, sempre sui contenuti e mai all’attacco della persona, mai all’offesa.
Ho chiesto alla macchina come cucire i pantaloni bucati di mia nipote, giacché a lei le toppe non piacciono. Mi ha elencato una serie di amorevoli alternative per rabberciare in maniera discreta e non troppo invasiva. Alla fine mi ha comunque consigliato di dialogare con la ragazza, perché “parlarsi in maniera aperta al dialogo e al confronto è sempre la scelta migliore”. Assertiva, intelligente, rispettosa. In una parola: commovente. Nella stragrande maggioranza dei casi, affrontare il tema con un essere umano avrebbe suppergiù suscitato queste reazioni, nell’ordine: “e chissenefrega”, “fai un po’ come ti viene”, “comprale un altro pantalone”, “portali dalla sarta”, “scusa ma non ho tempo”. Com’è umana l’intelligenza artificiale. Purché non diventi demenza, si intende. A quella contribuiamo già noi, l’homo stupidus stupidus.