Kintsugi - InEsergo

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28 Dicembre 2022 - InterEssere

L’arte di riparare le ferite

Kintsugi

“Solo quando ci rompiamo, scopriamo di cosa siamo fatti.”
Ziad K. Abdelnour

La parola kintsugi si scrive con i kanji 金継ぎ, che rispettivamente significano “oro” (金) e “aggiustare” (継ぎ). Letteralmente possiamo tradurlo con “aggiustare con l’oro” o anche “toppa dorata”. Certe volte, soprattutto in Occidente, si può incontrare anche il termine kintsukuroi, scritto con i kanji 金繕い e tradotto con “oro” e “riparatore” (繕い), quindi “riparatore che usa l’oro”.
 
Si tratta di una pratica giapponese che consiste nell'utilizzo dell’oro o della lacca con polvere d'oro per riparare oggetti, saldando assieme le superfici ed esaltandone le imperfezioni.
 
Ogni superficie riparata con la tecnica artistica del kintsugi presenta un diverso intreccio di linee dorate che diventa unico e irripetibile per la casualità con cui la superficie stessa si è frantumata o incrinata.
 
Questa pratica giapponese consiste nell'idea che dall'imperfezione o da una ferita può nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore.
 
Gli artigiani di kintsugi sono rarissimi al di fuori del Giappone in quanto il metodo è molto più antico di quanto si potrebbe credere: le prime rudimentali tecniche di riparazione del vasellame giapponese risalgono al periodo Jomon, una larghissima era che spazia dal 10.000 fino al 400 a.C. Proprio durante questo arco storico e proprio in Giappone si hanno i reperti del più antico vasellame del mondo, oggi custoditi nei musei a Tokyo.
 
L’arte del kintsugi risale al quindicesimo secolo ed è associata alla figura di Ashigaka Yoshimasa (1435-1490), ottavo shogun dell’epoca Muromachi. Durante il suo governo il Giappone vide la nascita di un movimento culturale ispirato alla filosofia zen, alle cui origini risale anche la cerimonia del tè. Narra la leggenda che durante il cerimoniale del tè si ruppe la preziosa tazza utilizzata da Yoshimasa, il quale incaricò i suoi artigiani di ripararla in modo che mantenesse inalterata la sua bellezza. Gli artigiani decisero allora di dare risalto alle crepe della tazza con resina e polvere d’oro anziché nasconderle.
 
La cultura orientale differisce molto da quella occidentale, sotto diversi aspetti. In Occidente c’è la tendenza a gettare via gli oggetti quando si rompono oppure a cercare di ripararli senza lasciare tracce visibili del danno. Per gli occidentali la rottura, le difficoltà e le cicatrici spesso hanno un significato negativo abbinato al dolore, alla vergogna, al senso di colpa e al fallimento. Facciamo fatica a considerare che i momenti di crisi possano costituire nuove risorse e offrire nuove opportunità di cambiamento.
 
In Occidente quando si rompe un oggetto per ripararlo usiamo la colla trasparente, in modo da nascondere le linee di rottura. Quante volte abbiamo detto: “Se il vaso è rotto, è rotto! Non potrà più essere come prima!”. Per i giapponesi, invece, ogni storia, anche se dolorosa, è fonte di bellezza e ogni cicatrice viene mostrata orgogliosamente.
 
Secondo la tecnica del kintsugi, da una ferita è possibile ridare vita a ciò che è stato danneggiato, creando una nuova forma da cui nasce una storia ancora più preziosa, sia esteticamente che interiormente. Ogni pezzo riparato diventa unico grazie alla casualità con cui la ceramica può rompersi e per le irregolari decorazioni che si formano con il metallo. Le crepe che prima erano punti fragili da nascondere vengono valorizzate con l’oro.
 
Il kintsugi non è solo una tecnica di restauro, ma ha un forte valore simbolico. Rappresenta la metafora delle fratture, delle crisi e dei cambiamenti che l’individuo può trovarsi ad affrontare durante la vita.
 
L’idea alla base è che dall’imperfezione e da una ferita possano nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore. Attraverso la valorizzazione della frattura, il vaso rotto ora ha una nuova storia. Allo stesso modo, una persona può superare e “guarire” le proprie ferite. Le cicatrici possono essere orgogliosamente mostrate nel contesto di un processo di rinascita.
 
La pratica del kintsugi, quindi, può essere considerata una metafora per illustrare il processo psicoterapeutico, quello cioè che avviene nella stanza di terapia. La terapia può aiutare le persone che si sentono “a pezzi” ad affrontare e superare gli eventi critici che stanno vivendo. Nel percorso di psicoterapia il professionista accompagna la persona nella costruzione di una nuova realtà, ricomponendo le sue parti interne e valorizzando le sofferenze, con lo scopo di far emergere e rafforzare le sue risorse.
 
La persona sarà quindi più consapevole delle sue risorse e riuscirà a vedere le proprie ferite da un’altra prospettiva, avendole trasformate in punti di forza. Non è quello che fanno i giapponesi nel kintsugi?
 
L’arte del kintsugi richiede grande pazienza e ciò vale anche per il lavoro su se stessi: la riparazione prende lentamente forma passo dopo passo. Elaborare una ferita è un processo lungo, lento e a volte scoraggiante. Richiede cura ma attraverso le prove e i tentativi si va avanti, anche quando si ha l’impressione di essere rimasti fermi. Ad un certo punto tutto comincia a diventare più chiaro, si vedono dei progressi e si inizia a guardare le cose da un altro punto di vista.
 
Ricordiamoci che il dolore e la sofferenza sono parte della vita. Imparare a sentire e riconoscere queste emozioni ci insegna che siamo vivi. Con il tempo il dolore viene elaborato, passa e lascia un segno. Ci lascia cambiati, a volte più forti, a volte più saggi. Il kintsugi è una lezione di vita. Ci insegna ad accettare e accogliere le nostre ferite anziché rimuoverle, a trasformarle in punti di forza “ricoprendole d’oro”. Esse sono la testimonianza del nostro passato, delle prove superate, della nostra storia e di quello che siamo.

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