La fine della creatività
Nelle piazze italiane, in qualche locale dove si fa musica dal vivo, o in qualche contenitore televisivo, a chiunque è capitato di ascoltare una tribute band.
Le tribute band sono formate da musicisti che fanno riferimento a un solo artista o a un solo collettivo, attingendo al suo repertorio. L’obiettivo è cercare di arrivare all’imitazione perfetta, copiando perfino le movenze, il modo di vestire, il taglio dei capelli. Una vera e propria operazione di clonazione che inizia dagli aspetti tecnico-musicali fino alla riproposizione della stessa strumentazione, dei medesimi suoni, della scaletta di un album specifico, della scenografia di uno spettacolo.
Fonte di ispirazione per le tribute band sono in gran parte gli artisti emersi negli anni Sessanta e Settanta, nel corso dei quali i diversi filoni soprattutto del rock hanno maturato la propria fisionomia e sono emerse figure carismatiche che hanno lasciato il segno.
Il rock è stato spesso composto da musicisti che hanno fatto dell'atto creativo espressione specifica della propria personalità, ideando una musica plasmata sulle individualità, figlia di una metodologia creativa totalmente differente da un’opera classica.
La tribute band, riproducendo pedissequamente un concerto, assoli di chitarra o di tastiere identici all’originale, propongono uno spettacolo di imitazione, una recita meglio o peggio riuscita, che comunque non può resuscitare l’energia, il carisma, la sensualità di artisti che all’apice del successo avevano tra i 20 e i 35 anni. Robert Plant può essere imitabile? Si possono indossare i sontuosi abiti di scena di Freddie Mercury senza esser caricaturali? L’impeto, la rabbia, la passione di un Roger Waters che percuote violentemente il gong possono esser replicati?
È il trionfo della ripetitività, in aperto contrasto con lo spirito artistico degli originali che durante la loro carriera sottoposero il repertorio a continua elaborazione: se ascoltiamo i live dei Pink Floyd dal 1970 al 1977 difficilmente ci imbatteremo nelle stesse proposte. Heroes di David Bowie nei vari tour assumeva ogni volta forme diverse, come in una metamorfosi musicale.
Potreste chiedervi che male c’è nel fare questo. Un musicista può decidere, per suo piacere o anche per alimentare un proprio business musicale, di rendere omaggio al repertorio degli artisti a cui fa riferimento. Il problema nasce quando tale fenomenologia diviene qualcosa che travalica e mette in ombra le realtà musicali che mirano invece alla creatività, alla ricerca di nuovi stili, di nuove sonorità, di nuovi linguaggi, alle potenziali avanguardie della musica, agli artisti che propongono il vero, cioè se stessi. Ma soprattutto, questo modo di procedere genera nel pubblico una sorta di assopimento culturale, di ipnosi, di stasi.
Proliferano trasmissioni TV dove si brama il sosia, il clone dell’artista, offrendo gloria non a chi ha nuove idee da proporre, ma a chi è in grado di imitare, e questa capacità viene plaudita se si avvicina all’originale, mentre la si deride se risulta una pessima caricatura. In ogni caso l’audience vola.
«Il mercato della nuova musica si sta effettivamente riducendo, tutta la crescita viene dalle vecchie canzoni» - scrive Ted Gioia, uno dei più grossi critici musicali d’oltreoceano. «L’industria musicale ha perso la capacità di scoprire e coltivare i propri talenti. Il problema non è la mancanza di nuova musica di qualità, è che l’industria musicale non è più progettata per scoprirla e alimentarla».
Chi paga le spese di uno scenario siffatto sono gli artisti emergenti, che devono barcamenarsi per guadagnare visibilità in un contesto sempre più ostico.
Tutto ciò non può che essere la naturale propaggine di una società che evidentemente non ci vuole creativi, non ci vuole vivi, ma cadaveri ambulanti, trascinati in un corpo che i canoni impongono sbrilluccicante nella veste esteriore ma che di fatto è morto dentro. Ci crogioliamo nelle memorie di un passato che possedeva vitalità, energia, un passato immerso nella progettazione, nella costruzione, nella visione del futuro, mentre oggi ci viene imposto un nichilismo esistenziale mentre restiamo soffocati dalla paura delle guerre, dei virus, delle catastrofi naturali, del clima.
Ci immergiamo nella palude della morte interiore e non ci rimane altro che consumare: consumare un pasto grasso, apparentemente invogliante, ma che cela un vuoto, un fetido odore di nullità, di orpelli tecnologici, di oggetti utili solo a ingrassare le tasche di chi li produce. La grande finanza esulta, i padroni del vapore gioiscono nell’ammansire una massa impaurita, chiusa nel proprio piccolo mondo, inebetita dalla TV, orgogliosa dell’intelligenza artificiale, una massa pronta a impersonare il kapò di turno quando richiesto, per bearsi di quel sadico orgasmo che deriva dall’imposizione del potere ai propri simili.
Se la vita è la scoperta e la realizzazione di noi stessi, della nostra unicità, la fiamma creativa è l’unica àncora di salvezza che può permetterci di cambiare direzione in un mondo che sta alla rovescia.
L’arte è uno dei più potenti mezzi espressivi, dà voce ai sentimenti ben oltre a dove possono arrivare le sole parole.
L’arte che si cristallizza sulla riproduzione di un’espressione del passato, anche se perfetta e irreprensibile, resta puro esercizio di estetica, seppur bello, privo dell’energia vitale di quegli artisti che in uno specifico momento storico, unico e inimitabile, hanno dato vita alle musiche e ai testi che oggi identifichiamo come iconici.
In questa involuzione della spinta creativa, è facile immaginare che i musicisti intenti nel riprodurre alla perfezione i fasti passati saranno verosimilmente soppiantati dall’A.I., che saprà realizzare cloni perfetti nel miglior modo possibile. Un’intelligenza artificiale che conoscerà alla perfezione i nostri gusti musicali, che scandaglierà bisogni e desideri e a cui con un semplicissimo gesto o comando vocale chiederemo di suonare un brano nello stile di…: su uno schermo a parete intera si materializzerà la figura del nostro musicista preferito, la riproduzione perfetta del tempo che fu, con abiti stilosi, sorriso ammaliante e una band carica di energia.
Ciao, Arte.