I 10 Domandamenti - InEsergo

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10 Maggio 2023 - Storie

E i 7 bersagli mancati
 
I 10 Domandamenti
 
“la realtà non è qualcosa di esterno, la realtà esiste solo nella mente e in nessun altro luogo”.
(George Orwell)

Non so perché ma, tra i numerosi ricordi che ho di quando ero ragazzino, è presente nitidamente un’assolatissima mattina d’agosto dei primi anni Novanta in cui mio padre si dichiarò dubbioso riguardo all’installazione dell’aria condizionata in auto. La perplessità, all’epoca, nasceva dal disagio che gli provocava l’aggettivo condizionata, un’alterazione che potrebbe non fare bene.   

In effetti il termine non è accomodante e, in quanto forzatura, non ispira immediata simpatia. Se condiziono qualcuno o qualcosa ne influenzo il comportamento, ne limito la libertà, esattamente come quando sono influenzato e il virus mi scorre dentro (dal latino in-fluire) limitando il mio benessere. Più la temperatura è soffocante e afosa più dovrò condizionare l’aria perché così com’è non mi piace, mi provoca disagio. “Ti dichiaro guerra aria afosa e ti condizionerò piegandoti al mio volere!” Almeno finché starò al chiuso, cioè rinchiuso, in cattività… fuori non c’è partita. E naturale sgorga lo slogan dell’essere umano medio: “Nella mia prigione sono io il padrone!”.

Al contrario se l’aria è mite tutto è in quiete.
Come ti senti? In quiete o in battaglia? Nel secondo caso saranno in atto condizionamenti di attacco o di difesa (che poi l’attacco è difesa allo stato puro): non correre che ti fai male! È vietato il giuoco della palla! Non oltrepassare la linea gialla! Non fumare! Non pensare a un elefante! I divieti sono giusti o sbagliati, servono a proteggere o a inibire? Dipende dalla condizione in cui sei e forse anche dalla fiducia che riponi nel prossimo. Dopotutto chi comanda e non domanda, non ascolta e/o non si fida, a torto o a ragione.

E allora ti propongo un giochino innocuo, a malapena socratico. Un divertissement su qualcosa che la maggior parte di noi conosce, che ci è stato insegnato, ma è possibile farlo su qualsiasi precetto.

Immaginiamo, ad esempio, quali e quanti condizionamenti ci scorrerebbero dentro fin dalla tenera età, se al posto dell’ancestrale e granitico decalogo contenente ben nove divieti, avessimo ricevuto dieci Domandamenti.

1) Mi senti?
2) Come ti senti?
3) Vivi in equilibrio e armonia?
4) Sai riconoscere la buona volontà dei tuoi genitori nonostante i loro limiti e le loro inconsapevolezze?
5) Arriveresti mai ad uccidere un tuo simile (anche solo col pensiero)? E se sì, cosa ti spingerebbe a farlo?
6) Che valore ha per te la lealtà?
7) … e la sincerità?
8) Arriveresti mai a rubare? E se sì, cosa ti spingerebbe a farlo?
9) Cosa ti manca davvero?
10) Dove cerchi la felicità?

Una domanda onesta è disarmante (disarmare: deporre le armi): è la genesi di una riflessione e non l’affermazione di una verità. Il suo focus è la causa non l’effetto, la luna non il dito. Per tali motivi una domanda non può essere creduta, ma solo sentita. Sentire è l’unico antidoto contro le convinzioni. È il vero sesto senso: un sondarsi onnicomprensivo, analitico e sincero, che noi tutti confondiamo sia con l’udire, sia col pensare, sia con i sentimenti e quindi con le emozioni.
Il Sentire semmai si serve delle emozioni come utilissime frecce direzionali, ma non si fa deviare o appesantire da esse: le osserva dall’alto, a volo d’uccello, per cercarne la sorgente.

Ogni risposta ai Domandamenti non è mai sbagliata, rappresenta semmai un indizio di come stai vivendo: se ti senti diviso o compreso, in armonia o in conflitto. Il peccato invece sta in pensieri, opere e omissioni. Ma che significa peccare? Essere cattivi anziché buoni?

Cattivo deriva dal latino captivus: prigioniero di guerra ridotto in schiavitù. Ora proviamo a tradurre la frase “Se fai il cattivo la befana ti porterà il carbone”: “Tutte le volte che, SENTENDOTI prigioniero, reagirai, verrai punito”. Buono ha un’origine antichissima. Deriva dal sanscrito e significa essere felice e luminoso: una persona nel suo stato di felicità non è IN CONDIZIONE di fare del male a nessuno, tantomeno a sé stessa. È libera dal male. Fare opere buone è quindi una conseguenza dell’essere felici. In latino invece è diventato bonus: premio. La felicità non è più uno stato dell’essere, da coltivare nel quotidiano, ma un premio, qualcosa da raggiungere, che sia il consenso sociale o la vita eterna. Le buone azioni, se non ti senti felice e in armonia, saranno più uno sforzo che una conseguenza e più facilmente cadrai in tentazione, subendo giustamente una penitenziam (multa), perché hai peccatum, sei inciampato infrangendo una regola comunitaria.

Ma nelle lingue bibliche peccato ha ben altri significati. In ebraico la traduzione è khedìe, cioè trauma, blocco. L’interruzione di un equilibrio causato da gravi turbamenti. Mentre in greco, la lingua nella quale sono scritti i Vangeli, come ricorda spesso Piergiorgio Caselli peccato è amartia: mancare il bersaglio (con l’arco).

Alcuni anni fa conobbi un ragazzo che praticava il kyūdō, la via dell’arco giapponese. Immersi in una fresca brezza settembrina mi descrisse uno degli esercizi più ostici, il quale consiste nel posizionarsi con l’arco teso e la punta della freccia a pochi centimetri dal bersaglio. Rimasi interdetto perché non ne comprendevo la difficoltà, fino a che non mi svelò lo scopo dell’esercizio: chiedere a te stesso come ti senti in quel momento. Vacilli sotto il peso e la tensione dell’arco in quanto distratto, stanco, preoccupato, svogliato, alterato oppure sei stabile e in perfetta armonia?

Il pittore cinese Shitao (1600), nel suo trattato sulla pittura, afferma che per disegnare un albero è necessario essere quell’albero. Allo stesso modo per fare centro è necessario sentirsi arco, freccia… bersaglio. Sì, hai inteso bene, in quell’esercizio il vero bersaglio sei tu.

Quindi in khedìe e amartia dove sta la colpa?

Come ti senti?
Domanderebbe Dio
In equilibrio su di un filo
Risponderei io.

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