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20 Febbraio 2022 - Musica

Dall'epoca dei videoclip alla fama per tutti
  
Il grande "piccolo" contenitore
 
Video Killed The Radio Star dei Buggles fu il primo videoclip messo in onda dal nascente network televisivo MTV nel 1981. Questo evento non coincide tuttavia con la nascita dei video modernamente intesi. I videoclip dei primi anni ‘80 discendono in linea diretta dai promo clip di vent’anni prima, viatici promozionali da mandare in onda durante gli show televisivi. I Beatles furono i primi con Help!, Ticket to Ride, I Feel Fine, accompagnati da riprese nelle quali i componenti del quartetto appaiono con i loro strumenti, sullo stage oppure in ambienti bucolici (Strawberry Fields Forever) – modalità scenografica quest’ultima sposata da molte altre band come Rolling Stones, Kinks, Who, Pink Floyd.

Nel 1975 “Top of the Pops”, in quel momento il più importante programma musicale in Inghilterra, lanciò Bohemian Rhapsody dei Queen, balzata dopo quattordici giorni dalla messa in onda dal trentesimo posto alla vetta della Top Ten, rimanendovi per tredici settimane. In Italia nel 1976 Lucio Battisti è l’artefice del primo videoclip nostrano con Ancora tu e le ambientazioni agresti tanto di moda a fine anni sessanta.

L’artista che intuì la svolta e le potenzialità espressive del videoclip fu David Bowie: la trasformazione dell’individuo in alter ego, come accade ad esempio con Ziggy Stardust, fu possibile grazie al video musicale che innovava il protagonista a ogni ripresa. Un trasformismo che, per fare un altro esempio, ha ben caratterizzato tutta la carriera di Maria Luisa Ciccone, in arte Madonna.

Nei pieni anni ‘80 band come Duran Duran, Eurythmics, Spandau Ballet, Frankie Goes to Hollywood conobbero la popolarità planetaria anche grazie ad accurate sceneggiature video che andavano ben oltre i paesaggi naif o le riprese live delle performance musicali.

Il primo agosto 1981 il già citato Video Killed The Radio Star, composto da Trevor Horn e Geoff Downes, ci proponeva l'esibizione dei due musicisti tra esplosioni di televisori e vecchie radio anni trenta. Un duo che, notate bene, non si esibì mai dal vivo come The Buggles e che quindi utilizzò la televisione come medium esclusivo di commercializzazione della propria immagine (peraltro Trevor Horn e Geoff Downes, in quel periodo rispettivamente voce solista e tastiere degli Yes, erano valenti musicisti che avrebbero potuto tranquillamente affrontare qualsiasi tipo di palco).

È innegabile che pop band come Culture Club, Kajagoogoo, Doctor & the Medics presero il volo grazie al videoclip. Gli australiani Men at Work dopo la messa in onda di Who Can It Be Now vendettero copie del loro album di debutto in tutte le aree geografiche dove era presente il segnale di MTV, arrivando ai primi posti della “Billboard” nella classifica dei dischi più venduti.

I Duran Duran dopo il primo disco iniziarono tour interminabili, rilasciarono interviste a tutte le riviste per teenager, ma il loro album rimase in centocinquantesima posizione finché la EMI produsse il videoclip di Girls On Film, che andò in rotazione su MTV. Le vendite a quel punto si fecero iperboliche e per finanziare il clip del nuovo singolo Hungry Like The Wolf, con riprese nello Sri Lanka, la casa discografica sborsò la bellezza di 200.000 dollari.

Ne 1983 la CBS, etichetta discografica di Michael Jackson, mise sul piatto 75.000 dollari per il video di Billie Jean che portò l’album Thriller a vendere venticinque milioni di copie solamente in America. All’incredibile risultato contribuirono anche i video di Beat It e soprattutto di Thriller, che costò un milione di dollari per tredici minuti di girato. Il videoclip degli esordi si era così trasformato in un vero e proprio cortometraggio con tanto di ballerini, effetti hollywoodiani e paesaggi da sogno.

Dal cortometraggio di Thriller si arrivò al lungometraggio: The Wall, versione cinematografica dell'omonimo doppio album dei Pink Floyd, è un’opera divenuta archetipo imprescindibile per chiunque voglia tradurre in sequenze di immagini un disco intero piuttosto che la singola canzone. Interprete principale è il cantante Bob Geldof, all’epoca leader dei Boomtown Rats, altra band della new wave british anni ‘80.

Ai nostri giorni tutto questo mondo possiede la consistenza di un ricordo del passato (per chi lo ha vissuto), ma anche di un viatico al broadcast yourself, alle piattaforme online sulle quali chiunque può caricare i propri video più o meno amatoriali. Come diceva Andy Warhol negli anni sessanta, “in futuro ognuno potrà godere dei propri quindici minuti di celebrità”. Quindici minuti che adesso sappiamo potersi estendere ben oltre.

YouTube e molte altre piattaforme ci consentono in pochi click di essere online al cospetto del mondo intero. Dai network come MTV si è passati agli spazi web, dalla programmazione musicale decisa dalle etichette discografiche al palinsesto pianificato dal basso, a misura dell’utente finale. Sembrerebbe tutto bello, un enorme progresso. Il punto è che, nel mare magnum della rete, milioni di file vengono caricati ogni giorno e la sfida al successo si gioca tutta sulla visibilità, una chimera possibile solo con migliaia di “follower”, con la fidelizzazione del pubblico. Ci imbattiamo così in una pletora di cantori improvvisati, chitarre stonate e indossate sopra canottiere pre-lavatrice o reggiseni di pizzo ben in vista, frotte di musicisti autoproclamatisi tali, “maestri” che fanno a gara nello spiegare in pochi minuti ciò che si impara in anni di studio insaporendo il tutto con sorrisi accattivanti e toni da corso di speakeraggio on line.

In questo calderone dove tutti ambiscono alla fama, tutti vogliono crearsi un personaggio, l’Arte si trasforma così in arte dell’apparire e si perde di vista l’aspetto più importante, ovvero la qualità della proposta artistica, perché si promuove indirettamente un’involuzione dei contenuti che rende assai difficoltoso rintracciare il bello nella mediocrazia serpeggiante. Bisogna avere visibilità, successo e fama, costi quel che costi: un’idea tutto sommato figlia della società industriale occidentale, che rimanda a quell’avere già descritto da Erich Fromm come coagulo di avidità, sete di denaro, bramosia di potere.

L’essere, soggetto che ha come obiettivo la ricerca del bello, del gusto e della raffinatezza, dell’arte come canale di evoluzione interiore, mal si combina con la realtà del grande contenitore virtuale onnicomprensivo. Un “essere” in cui alberga ben consolidato il senso critico dell’espressione delle proprie facoltà e dei talenti, in quella moltitudine di doti che ogni individuo possiede. Auguriamoci che l’arte torni a testimoniare le idee e l’estro umani, un potenziale creativo, anche in nuove forme, in nuovi linguaggi, abiurando però la vacua pulsione del mettere forzatamente in vetrina “qualcosa”: un qualcosa che serve a riempire qualche centinaio di megabyte del grande contenitore, sempre più grande ma dai contenuti sempre più infinitesimali.




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