Still life, la poesia dell'ultimo abbraccio
Un uomo, solo. Altri, ugualmente soli al momento dell’estremo commiato. Un trait d’union di dolcezza e sentimenti, una delicatezza straziante. Così si dipana l’esistenza di John May (Eddie Marsan), impiegato del comune londinese. La sua mansione non è mera necessità di sopravvivenza o passione pura, ma ragione stessa di vita. “Amo il mio lavoro”, sentenzia il protagonista con quell’espressione tenuemente sospesa tra il voler aggiungere ancora qualcosa e il timore di dire troppo. Perché questo fa John May, da ventidue anni: investigare la vita di chi muore in solitudine, riscostruirne il passato, la storia, rintracciarne amici o parenti da portare al funerale o perlomeno da informare. Un’esistenza in bilico tra i fantasmi, spulciando tra gli oggetti abbandonati, le fotografie, i ricordi di chi sapeva e interloquiva, per restituire la dignità, per scacciare l’arido senso di emarginazione dal momento dell’ultimo congedo.
Ma spesso il tutto si traduce in un insuccesso. Per questo May presenzia ai funerali nella più totale solitudine, scrive le orazioni per l’ignaro parroco celebrante, mescolanze di esplorazione e proiezioni soggettive al fine di ristabilire un’identità irrintracciabile. Donare dignità da morto a chi in vita l’ha perduta, questo fa John May. Un lavoro sottotraccia, senza alcun beneficio apparente, nessun guadagno o ritorno: chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna, diceva Ugo Foscolo. Non stupisce pertanto che in una società guidata esclusivamente da logiche di profitto tale mansione venga a un certo punto ritenuta superflua. Così procede il nuovo rampante superiore di May, appena insediatosi: taglia l’ufficio, accorpandolo a una nuova sezione, e procede a un licenziamento gentilmente offerto come opportunità. La tipica fregnaccia con fiocchetto elargita al lavoratore la cui funzione, improvvisamente, è diventata inutile.
Ma c’è tempo per un ultimo caso: quello di William Stoke, vicino di casa alcolizzato che abitava proprio di fronte. Questa volta le cose andranno diversamente. May riuscirà a rinvenirne gli amori, gli amici, i compagni di bevute. Perfino la figlia, allontanatasi spontaneamente molti anni prima. Il suo lavoro esile e all’apparenza impalpabile, ricolmo d’amore e delicatezza, smuoverà mari e monti. Le conseguenze saranno quasi fiabesche. Tutti i satelliti dell’universo di Stoke a poco a poco ritroveranno la loro collocazione, per serrare le file proprio il giorno del funerale. Sarà l’ultimo incantesimo di May, la cui vita, al momento di mettere piede nel flusso tangibile del reale, prenderà una piega del tutto inaspettata.
Figlio del cugino di Pier Paolo Pasolini, il regista Uberto nel 2013 se ne esce con questo secondo lungometraggio in qualità anche di produttore, ammantandolo della stessa grazia che anima il protagonista. Osannato ai festival di Venezia e Reykjavik di quell’anno, Still Life (natura morta, nel senso di ferma, immobile, e quindi necessariamente non vitale) è uno dei più riusciti prodotti cinematografici sul tema della morte e del legame con la vita. Un capolavoro che si fa forza della fotografia cinerea e trascolorata di Stefano Falivene (vincitore l’anno successivo del Globo d’oro) e dell’interpretazione di Eddie Marsan, assolutamente perfetto sia per fisicità che per un’espressività molto più valente e funzionale delle battute sul copione. Coraggioso, Uberto Pasolini. Puntare la macchina da presa sulla vita immobile – appunto apparentemente morta – di un uomo il cui ruolo è frugare tra i sentimenti e i ricordi di chi ha lasciato questo mondo: una prospettiva filmica non propriamente di cassetta e neppure destinata a fluttuare in superficie. Abituati come siamo a valutare il valore di un essere umano in base al numero di galloni conseguiti lungo l’arco dell’esistenza, quest’opera suona come un monito e un invito a scendere nel profondo.