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27 Aprile 2022 - Cinema

La sublimazione del viaggio infinito

Il cinema on the road
  
“Prima di partire per un lungo viaggio, porta con te la voglia di non tornare più”
Irene Grandi

L’idea che il viaggio non sia un semplice “spostamento da un punto all’altro”, ma che possa portare con sé un cambiamento radicale, una svolta epocale da imprimere alla propria esistenza, incarna la premessa migliore alla vigilia di una partenza. Sul grande schermo il tema del viaggio è stato trattato e sviscerato in modi molto diversi: mi riferisco ai road movies, vero e proprio genere cinematografico che continua a riscuotere proseliti tra il pubblico. Si pensi, ad esempio, al recente Nomadland (2020), vincitore di tre Premi Oscar, con protagonista una splendida Frances McDormand. Vorrei dunque rendere omaggio ad alcune pellicole che hanno fatto la storia del cinema e che, per questa ragione, definisco iconiche.
 
Easy Rider (1969) è molto probabilmente il road movie per antonomasia, imbevuto di moto e cultura anni ’60 e manifesto della libertà più sfrenata e incontrollata. Il film, scritto, diretto e interpretato da Dennis Hopper, entra prepotentemente nell’immaginario collettivo, sostenuto da una colonna sonora che passerà agli annali: Born to be wild degli Steppenwolf acquisisce lo status di vero e proprio inno generazionale.
 
Nello stesso periodo Terrence Malik firma il suo primo lungometraggio: Badlands (La rabbia giovane) (1973). Gli interpreti di questo indimenticabile on the road sono Martin Sheen e una giovanissima Sissy Spacek che, poco tempo dopo, avrebbe letteralmente bucato lo schermo col personaggio di Carrie nell’omonimo capolavoro di Brian De Palma. Nel film di Malik notiamo distintamente gli elementi che hanno reso celebre il regista: l’immancabile voce fuori campo, i campi lunghi e una fotografia mozzafiato.
 
Nel 1971 Steven Spielberg esordisce con Duel, prodotto originariamente per la televisione che il successo commerciale dirottò sul grande schermo. In tutto il film non sentirete lo straccio di un dialogo, tranne in un’unica fugace sequenza. La sceneggiatura è costruita sui rombi degli automezzi che duellano come in un classico western con le marmitte e i motori al posto delle pistole. Nonostante parecchi errori Duel passò alla storia, tenendo gli spettatori incollati alla poltrona fino al rocambolesco e “rumoroso” finale.
 
Un altro lungometraggio da amare, sia per il messaggio che per come viene veicolato, è Fandango (1985) di Kevin Reynold. Fandango è un inno alla vita, in special modo alla giovinezza che lascia inesorabilmente spazio all’età adulta. La pellicola è permeata di un perfetto equilibrio tra la nostalgia per la perdita dell’innocenza e la leggerezza tipica della gioventù più frizzante e radiosa. Il termine fa riferimento anche a una danza ispanica dai movimenti nervosi e imprevedibili, come si vede in un’indimenticabile sequenza del film.
 
Nel 1988 esce Rain Man, diretto da Barry Levinson, con un monumentale Dustin Hoffman (che vinse il Premio Oscar come attore protagonista). Il film ha il grande merito di raccontare la vita di un uomo affetto da autismo con profondità e leggerezza encomiabili. Nessuno sul grande schermo se ne era mai occupato prima con lo stesso coraggio. Charlie Babbitt (Tom Cruise), la compagna e il fratello Ray (Hoffman) intraprendono un lungo viaggio in auto (Ray ha paura di volare) che raggiungerà il culmine nell’incredibile scena del casinò. Durante il tragitto Charlie avrà modo di conoscere (e amare) il fratello, non senza colpi di scena e sorrisi.
 
Ultimo road movie girato negli anni ’80 che considero una vera chicca è Un biglietto in due (1987), con il mai abbastanza compianto John Candy, attore immenso non solo per l’imponente stazza. Candy e Steve Martin sono i protagonisti di un viaggio tanto divertito quanto intriso di malinconia e ambientato nel periodo natalizio, il che acuisce profondamente il senso di solitudine del personaggio interpretato da Candy. Ogni tappa si rivela una vera e propria odissea che, tuttavia, porterà i due a conoscersi e stimarsi umanamente.
 
In Italia come non citare Il Sorpasso (1962) di Dino Risi? Interpretato magistralmente da Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignant, uno degli attori francesi più importanti di sempre, Il Sorpasso è un viaggio attraverso un’Italia che stava cambiando radicalmente. Il film è riconosciuto a tutti gli effetti come grande esempio di cinema italiano all’estero.

Ella&John (2017) di Paolo Virzì, tratto dal romanzo The Leisure Seeker (che invito caldamente a leggere), ha il merito di affrontare con delicatezza e rispetto il tema della terza età. Ella (Helen Mirren) e John (Donald Sutherland), affetto da Alzheimer, porteranno a termine l’ultimo indimenticabile viaggio della loro vita a bordo di un camper per ritrovare la giovinezza perduta. Ella cercherà di godersi ogni tappa in simbiosi con il marito, sempre più in balia della malattia, ma con ancora sporadici sprazzi di lucidità e amore nei confronti della moglie.

Un altro film nostrano che affronta il tema del viaggio è Stanno tutti bene (1990) di Giuseppe Tornatore. Un padre siciliano oramai stanco e anziano, interpretato da un magistrale Marcello Mastroianni, decide di girare l’Italia in treno per andare a trovare, senza alcun preavviso, i figli sparsi per lo Stivale, scoprendo con somma sorpresa e delusione che nessuno di loro si è realmente realizzato nella vita. L’attempato padre, intristito e disilluso, farà ritorno nella sua Sicilia raccontando ugualmente alla gente che i figli “stanno tutti bene”. Il tema del viaggio, dunque, è qui ammantato di tristezza e disincanto.

Vorrei concludere citando tre titoli che reputo piccoli-grandi capolavori del filone. Little Miss Sunshine (2006) è stato premiato con due Oscar ed è la storia di un’eccentrica famiglia che, a bordo di un pulmino Volkswagen T2 giallo, si lancia in un esilarante viaggio per accompagnare la piccola Olive a partecipare alle fasi finali di un concorso di bellezza.

Nebraska (2013) del regista Alexander Payne, impreziosito da una fotografia in bianco e nero di rara bellezza, racconta la storia di un anziano convinto di aver vinto un milione di dollari a un concorso. Il figlio, pur sapendo che si tratta di un’immensa bufala, decide di accompagnare in auto il padre dal Montana fino, appunto, al Nebraska. Il film è disseminato di una nostalgia di fondo che avvolge inesorabilmente ogni sequenza.

L’ultimo lavoro di cui vi voglio parlare rappresenta, a mio avviso, un unicum nella storia del cinema. The Straight Story (Una storia vera) (1999) è, infatti, il meno lynchiano tra i film del regista americano. Non vediamo strani personaggi, drappi rossi, trip onirici, ma solamente un signore ultraottantenne (Alvin Straight) malato terminale e veterano della Seconda guerra mondiale che, a bordo di un tagliaerba (avete capito bene), decide di percorrere circa 400km alla velocità di 5 miglia all’ora per andare a trovare il fratello morente con il quale non ha più nessun rapporto da anni. Un fatto realmente accaduto che risale al 1994 e che riguardò un contadino dello Iowa. Una Storia Vera è davvero un capolavoro, oltre a essere il road movie più lento e al contempo toccante della storia del cinema. La sceneggiatura è scritta talmente bene che trasuda profonda naturalezza, le immagini e i tramonti sono a dir poco commoventi, e il film non può assolutamente mancare nella collezione di ogni cinefilo che si rispetti.

Ci sarebbero tanti altri titoli da ricordare, come Into The Wild, A proposito di Schmidt, Il posto delle fragole, Thelma&Louise, il recente e bellissimo Green Book, ma ci fermiamo qui. Non ci resta che programmare il prossimo viaggio rispolverando, nel mentre, questi cult movies del cinema mondiale. Senza dimenticare di riguardarci Nomadland, sublimazione del viaggio infinito.


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