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16 Giugno 2022 - Storie

L’insostenibile fatica di essere
 
Amy Winehouse
 
A Londra il 23 luglio 2011 doveva essere una giornata grigia, una giornata londinese, una specie di luogo comune, di stereotipo. A Londra il 23 luglio 2011 pioveva: se fosse una storia inventata la inizierei così.
 
In una casa situata a Londra, più specificatamente nel borgo di Camden, una grossa guardia del corpo apre la porta d'ingresso e sale le scale: se fosse una storia inventata le scale le metterei, perché ci stanno bene, perché fanno molto epoca vittoriana. La guardia del corpo percorrendo un lungo corridoio pronuncia un nome, anzi un cognome preceduto dall’appellativo “miss”. Se fosse una storia inventata sarebbe l'ambientazione perfetta. Intanto fuori continua a scendere quella pioggia leggera che conoscono tutti, anche se non si è mai stati in Inghilterra.
 
Purtroppo, nella camera da letto, stesa sul letto, una miss c'è sul serio e non respira più. Si chiamava Amy, miss Amy Jade Winehouse, consegnatasi definitivamente il 23 luglio 2011 alla storia della musica, morendo ed entrando a far parte del famigerato Club 27 che raggruppa tutte le rockstar morte a 27 anni in circostanze misteriose e che per questo sono rimaste eternamente giovani, offrendo materiale infinito a chi scrive di musica ed è appassionato di complotti.
 
Ma il Club of 27, il mito, l'ambientazione, la pioggia, la Londra di ispirazione vittoriana sono solo pretesti per raccontare una storia. Una storia che potrebbe essere solo triste, di distrazione, di scarso contatto con la realtà, ma che invece di scatenare giudizi negativi ingenera compassione e commozione per aver perso un che di realmente prezioso, perché al di là dei moralismi e delle frasi fatte su quanto la droga e l'alcool distruggano, non è quello il punto, non è una fiction.
 
Ciò che abbiamo perso quel giorno di luglio è stata l'ultima voce capace di fare male e scatenare qualche sorta di sentimento in chi la ascoltava, perché nell'epoca "dell'era meglio prima" e della nostalgia forzata a tutti i costi Amy Winehouse è riuscita, seppure mantenendo uno stile volutamente vintage, a compiere qualcosa di completamente nuovo e irripetibile.
 
Voleva solo cantare. Almeno così dice lei stessa in un videotape amatoriale contenuto nel documentario intitolato Amy e diretto dal regista Asif Kapadia (già autore di un documentario su Maradona e uno su Senna che sto ancora cercando) che dà una visione completa di chi fosse: una ragazza estremamente fragile, sensibile, cosciente dei suoi problemi e che non riusciva a fare a meno di distruggersi e di essere vittima di chi con la scusa di amarla ha voluto solo sfruttarla.
 
Ma è di arte che parliamo ed Amy Winehouse era tutt'uno con la sua musica, tra le migliori autrici di testi, spesso così profondi da essere studiati nelle università; le parole della celebre Love Is a Losing Game ad esempio sono state messe in relazione da alcuni studenti della Cambridge University con i poemi di Sir Walter Raleigh.
 
L'impatto che la cantautrice britannica ha avuto sui media è stato devastante e se è vero che il mondo della musica crea mostri usa e getta ancora nessuno ha dimenticato né dimenticherà tanto facilmente l'iconica silhouette, la struggente vocazione all'autodistruzione e quella splendida voce che purtroppo ci ha regalato solo due dischi, di cui Back to Black è assolutamente tra i migliori cinquanta della storia della musica popolare. Amy è riuscita a lasciare una traccia reale e profonda, un testamento artistico che non lascia spazio a discussioni, nemmeno tra i troll, i leoni da tastiera, i sedicenti esperti e gli esperti veri.  
 
Se Jane Austen avesse fatto la blogger o avesse iniziato a scrivere ai giorni nostri tra le sue eroine romantiche avrebbe inserito quella ragazza minuta, strapiena di tatuaggi, timida e nascosta dietro a occhi così fragili da sembrare di cristallo ma che riusciva a divenire gigantesca quando cantava, che ha amato tanto e che non ha ricevuto nemmeno la metà di quello che avrebbe meritato.
 
Nel documentario di Asif Kapadia c'è una scena, c'è Amy nel 2008 in un locale in Inghilterra: ovviamente è sul palco e altrettanto ovviamente canta o ha appena finito di cantare, sta in equilibrio su dei tacchi vertiginosi e molto poco sobri e contemporaneamente è collegata con Los Angeles per la premiazione dei Grammy Awards dove a causa di problemi con il passaporto non poté recarsi di persona. La sua espressione negli istanti successivi alla scoperta di aver vinto il Grammy per la canzone Rehab è tra le cose più belle ed emozionanti che io abbia mai visto e chi era al cinema può confermarlo: nel suo viso c'era disegnata, marchiata a fuoco, impressa come una certezza granitica il candore e l'ingenuità di una ragazza che non sapeva assolutamente di essere così straordinaria.
 
Amy Winehouse è diventata un'icona, si è creata dal nulla e dal nulla si è distrutta, lasciando uno stuolo di tristi imitatrici, è stata una cometa che prima o poi ripasserà, ne sono sicuro, tanto nel Club 27 la certezza non esiste e per certi versi è meglio così.





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