Dedicato a quelli che stanno scappando - InEsergo

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21 Ottobre 2020 - Cinema

Retrospettiva e attualità del “Mediterraneo” di Salvatores, un monito alla felicità

Dedicato a quelli che stanno scappando
  
Mediterraneo, mare nostrum. Bacino eterogeneo epperò compatto, porto di mille paesi, fucina inesauribile di sinergiche culture: mia faccia, mia razza per dirla di greci e turchi e italiani come nel film di Gabriele Salvatores, premio Oscar nel 1992. Eppure, Mediterraneo non è opera che celebri il ricongiungimento eroico né tantomeno la dimensione mitologica e sacrale del viaggio.

Prendendo libero spunto dal romanzo Sagapò di Renzo Biason, durante il secondo conflitto bellico mondiale una pletora scapestrata di otto militari - guidati da un tenente cultore delle arti pittoriche e insegnante al ginnasio (Claudio Bigagli) e da un satanasso di sergente viveur (Diego Abatantuono) - sbarcano su una sperduta isola del mar Egeo per una missione di presidio del territorio a fronte di possibili incursioni inglesi e tedesche. Dovrebbero restarvi pochi mesi, ma la collerica distruzione per un tragico nonnulla della radio di bordo, unico ponte fisico e metafisico con il resto del mondo, li obbliga ad abbandonare ogni aspirazione di fare ritorno alla madre patria. Si ritroveranno così, soli, su un’isola caldissima e apparentemente desolata, ai margini delle grandi strategie militaresche e della vita dei cari in loro attesa.

Viste le premesse si comprende molto bene perché Salvatores ponga in esergo al suo lungometraggio la preveggente citazione del biologo francese Henri Laborit: “in tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”. Sono passati quasi cinquant’anni dal saggio Elogio della Fuga che contiene queste parole ma mai come ora è possibile percepirne pienamente l’attualità. Quando la tempesta prende la barca, dice Laborit, non v’è altra alternativa all’ammaino delle vele e alla messa sottocoperta dell’equipaggio: bisogna accettare di perdere il controllo, subordinando la traiettoria stimata alla salvezza della vita. Si potrebbero così disvelare luoghi e condizioni migliori di quelle lasciate, impossibili da scoprire altrimenti. Oppure no.    

La chiusura del film (e del cerchio) è infatti una dedica di Salvatores stesso a tutti quelli che stanno scappando. Non solo un rimando al di allora vuoto ideologico - oggi siamo giunti direttamente al post-ideologico, lambendo il postumano; non solo un languido senso di povertà e pochezza dopo anni sovrabbondanti di utopici sogni e battaglie ideali, ma anche, e soprattutto, fuga dal superfluo, dall’altro da sé, da qualsiasi distorsione esteriore. Eventualmente anche dalla storia, se si fa matrigna. Non è casuale che la scoperta dell’autoctona popolazione locale da parte degli avventori isolani avvenga inaspettatamente, scostando le bianche lenzuola stese ad asciugare. È infatti questo il senso della permanenza atemporale e astorica sull’isola di Syrna (in realtà di Kastellorizo) del manipolo di tremebondi eroi: abbandonare una dimensione mitica quanto affettata per abbracciare quella umana, la serenità di riscoprirsi pienamente uomini. Uno di essi conoscerà l’amore della vita (la meretrice del paese) e si darà alla diserzione; un altro fuggirà in malo modo, forse sostenuto dalla buona sorte, non riuscendo a sopportare di venire a patti con la solitudine; il tenente lascerà cuore e anima a colpi di pennello sugli affreschi della chiesa ortodossa del paese; il sergente maggiore farà ritorno sull’isola molti anni dopo, perché volevamo cambiare l’Italia e non siamo riusciti a cambiare niente. Tutti vivranno come un sogno la personale dipartita dal reale.

Sarà un aereo da ricognizione italiano in avaria a istigare la ripresa del ticchettio del tempo. Una volta compiuto un atterraggio di fortuna, il tenente al comando del monoplano confiderà all’ignaro convito che sono passati quattro anni dal loro sbarco, che quelli che erano nemici di guerra sono diventati amici e che presto gli inglesi verranno a riportarli a casa. Ma poco importa se la magia saprà dissolversi, perché ormai la metamorfosi è avvenuta: il milite, il giannizzero disposto a uccidere in nome e per conto di una divisa e di una bandiera, s’è fatto uomo, intriso non di ideali ma della sua stessa rifiorita interiorità.  
 
A quasi trent’anni di distanza, Mediterraneo è ancora e sempre latore di sorrisi e dolcezza. Nello sprofondo asettico in cui è finito il nostro mondo, commuove fino quasi a fare male l'intensa caducità dei protagonisti, che lottano, rotolano, soffrono e marciscono di sudore fino a rinascere dentro; né possono lasciare indifferenti i simulacri sparsi qua e là di compassione e vicinanza, le tracce di redenzioni, gioia e concupiscenza. All’epoca fu un florilegio di premi (oltre all’Oscar, anche tre David di Donatello, il Globo d’Oro e il Nastro d’Argento), ma non per l’accuratezza storica o il rigore filologico. Anzi. Fa sorridere l’inno di Mameli intonato come canto apotropaico quando ancora si procedeva sulle note della Marcia reale d’ordinanza. L’apologo di Salvatores, in un perfetto alternarsi tra dramma e commedia dal gusto tipicamente italico, ci ricorda piuttosto che sebbene gli anni scorrano via con la scusa che c’è sempre molto da fare (per parafrasare il maestro Battiato) la linea di fuga da percorrere rimane sempre lo sguardo spostato verso il sé interiore, piuttosto che battagliare per dare forza a un qualsivoglia simbolo o vessillo altrui.  


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