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09 Aprile 2021 - Teatro

L’agonia del teatro nell’epoca del distanziamento a comando
 
Il palco è nudo
 
Non vi è ombra di dubbio che il teatro sia stato (e sia tuttora) uno degli ambiti culturali più colpiti da questa realtà pandemica. Inizialmente venne la grande chiusura, quella del primo lockdown, maggiormente dura e crudele, nella quale impotenza e smarrimento regnarono sovrani malgrado molte realtà teatrali fecero il possibile per farsi udire nel silenzio, nella serrata, promuovendo iniziative ed eventi online.

Poi fu la volta della riapertura estiva, la famosa pausa dal virus. Un sospiro di sollievo? No, non esattamente, non per tutti. Gli unici ad averne beneficiato sono stati i teatri più grandi e rinomati, che riaprirono (non proprio a cuor leggero) con le regole del distanziamento sociale. Forse ai più non è noto, ma risulta complesso pianificare un’intera stagione di spettacoli ed eventi senza disporre della minima consapevolezza di quanto possa accadere in futuro, e per futuro non si intende certo un futuro remoto, ma qualcosa che sta dietro l’angolo, che incombe. Ed è cupo.

Insomma, non si può giocare al chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza quando dalla buona riuscita di un piano, specialmente in ambito culturale, dipendono centinaia di migliaia di posti di lavoro e, in più grevi parole, di vite umane. Ebbene: chi ha potuto farlo ha comunque deciso di credere nei suoi progetti, nella speranza che la situazione potesse migliorare o quantomeno risultare maggiormente gestibile.

Poi è giunta una terza fase, forse la più inclemente, che ha arrecato ampio scombussolamento, frustrazione e rabbia in chi lavora nel teatro e in chi il teatro lo ama. La fase dei fantomatici colori, degli innumerevoli decreti-legge, del tutto e del suo contrario. La fase che ancora stiamo vivendo. I teatri sono stati nuovamente chiusi per espiare le colpe di questa epidemia globale. Ma stavolta non hanno dovuto tollerare solo il peso dell’esser stati messi a tacere, ma anche le contraddizioni di un Governo che sta provando a rianimare il Paese senza di fatto riuscirci in modo equo.

Si susseguono i colori nel terrore generale delle persone, che a seconda delle divergenze cromatiche devono compiere una rinuncia più o meno importante. Giallo, arancione, rosso, arancione potenziato, rosso, giallo, rosso, arancione, rosso. Rosso: qualcuno perde il lavoro. Arancione: qualcuno non può più tornare tutte le settimane a casa dalla sua famiglia. Arancione potenziato o rosso: uno studente di scuola superiore in Dad che soffre di depressione o di disturbo d’ansia è confinato in casa senza possibilità di interazioni con i suoi coetanei. Giallo: un pizzico di sollievo per il ristoratore che finalmente può riaprire con un numero esiguo di coperti, ma con la paura costante e forse anche la rassegnazione di dover richiudere la settimana dopo, o il giorno dopo, perché il colore cambia di nuovo e accade da un momento all’altro.

Cosa hanno comportato questi colori per il teatro? Concretamente nulla, nel senso che i teatri in questa fase sono sempre stati preventivamente chiusi, a prescindere. Eppure, alcuni enti hanno anche partorito iniziative differenti dallo spettacolo tradizionale, adatte alla realtà vigente. Non si può non citare ad esempio l’evento che il Teatro Nazionale di Genova, la mia adorata città, ha organizzato a Palazzo Ducale: Edipo: io contagio. Una mostra cruda, reale, che era fondamentalmente uno spettacolo, con attori rinchiusi in teche nelle quali gridavano e battevano sui vetri con tutte le loro forze e la loro disperazione.

Bene. Liguria zona gialla, la mostra si può fare, si fa, e riscuote un discreto successo, forse anche per la gratuità dell’ingresso che rende sempre molto felici noi genovesi, accaniti risparmiatori parsimoniosi. La mostra rimane aperta una settimana, la settimana dopo ci sarebbe stato il cambio di cast degli attori coinvolti. Sarebbe stato, perché il modo verbale del covid è sempre e comunque il condizionale. Puntualmente, la settimana successiva il colore della Liguria cambia nuovamente: arancione. Mostra chiusa. Una mostra, ci tengo a precisare, connotata da ben precise regole di distanziamento, da una capienza massima di persone irrisoria, con il rispetto di tutte le dovute accortezze. Ma lo spettacolo viene comunque sprangato, tarpato nel momento in cui stava spiegando le ali.

D’altra parte, come nel primo lockdown, i teatri sono chiusi e le persone stanno a casa, non c’è un’anima in giro. Non un’anima in giro? Non esattamente. Il sabato pomeriggio le grandi vie delle città sono infestate di deambulanti che procedono senza sosta avanti e indietro, intenti allo shopping più sfrenato. Gli autobus sembrano strabordare ancor più dei tempi pre-pandemia. Negli spazi aperti, quei pochi in cui è ancora concesso andare, è difficoltoso camminare per la moltitudine di soggetti che vi vagano dentro. Appare lapalissiano come si calcolino due pesi e due misure in materia di assembramenti. Ci sono cose per cui, evidentemente, vale la pena affollarsi e aumentare esponenzialmente il rischio del contagio e altre, invece, per cui la pena non vale affatto.

La domanda che sorge spontanea e che personalmente mi attanaglia da mesi è questa: perché il teatro è considerato sacrificabile? Secondo alcuni per il fatto di non essere fonte di guadagno. Qui si evidenzierebbe un altro problema, che è ben a monte della pandemia globale e della grande crisi derivatane. Se il teatro non è fonte di guadagno è perché non rientra negli interessi della comunità. Forse qui sta il nocciolo della questione: per quale motivo la comunità non si interessa al teatro? È un problema dei membri della società, dei singoli individui che la compongono, che sono gretti e ignoranti e non sono attratti dalla cultura? O forse il vulnus è l’offerta, la produzione non abbastanza accattivante? Oppure, ancora, la promozione è decisamente scarsa se non addirittura assente?

Se ci facciamo caso, le sponsorizzazioni di eventi e spettacoli teatrali sono effettivamente nulle. Si potrebbe ribattere che ciò valga per qualsiasi ambito culturale, ma nel caso del teatro il problema risulta eclatante. Di teatro proprio non si parla e quandanche accada pare ci si voglia rivolgere soltanto a un’élite già avvezza e appassionata. Anche i costi degli spettacoli, purtroppo, rimandano a una nicchia sociale privilegiata che alimenta il mito del teatro appannaggio dell’alta borghesia. Certo, un buon spettacolo necessita di incassi adeguati a rientrare nelle spese. Ma i proventi si ricavano davvero alzando alle stelle i costi minimi dei biglietti o impegnandosi piuttosto in una seria campagna di sensibilizzazione e divulgazione della cultura a tutto tondo? La risposta è talmente ovvia da far quasi sorridere.

Sembra tutto estremamente complicato, ma invece si tratta di un circolo virtuoso dalla linearità disarmante: investire sulla diffusione di eventi e spettacoli, invogliare le persone a recarvisi, fissare costi abbordabili dei biglietti. Da queste premesse si ricaverebbero maggiori affluenze, maggiori guadagni e a cascata un’offerta sempre migliore. Semplice, lineare. Perché allora si decide di non investire sul teatro, di non farlo amare a tutti? Perché, consapevolmente, si sceglie di tenerne la gente lontano? Qual è l’interesse a farlo decedere lentamente, ammesso che vi sia un interesse in tal senso?
 
La grande crisi del teatro è cominciata ben prima dello scoppio della pandemia. Qualcuno aveva già iniziato a uccidere questo mondo, lentamente, subdolamente, senza fare rumore. E quale pretesto migliore se non quello del covid per portare a termine l’opera ancora più in sordina? Forse che la cultura ponga interrogativi di opportunità? Magari a qualcuno dà fastidio che gli individui avvezzi alla bellezza e all’arte esercitino la pratica destabilizzante del pensiero libero? E se per la collettività fosse più conveniente cessare definitivamente di porsi domande, convincendosi di vivere nel migliore dei mondi possibili? La porta per il nichilismo di chi possiede solo certezze è stata spalancata: sta a noi decidere di non compiere l’ultimo passo.
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