Io non mi sento italiano - InEsergo

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07 Giugno 2020 - Musica

Retrospettiva del capolavoro postumo di Giorgio Gaber a quasi vent'anni di distanza

Io non mi sento italiano
 
È il 2003, gennaio. Gaber se n’era andato tre settimane prima, il giorno di Capodanno, sopraffatto dal brutto male con cui combatteva con alterne fortune da un bel po’ di anni. Esce Io non mi sento italiano, attesissimo e invocato disco postumo, completato appena due mesi prima. Qualcuno ipotizza di trovare tra i suoi solchi una sorta di necrologio, di percepire, magari sobriamente, l’alone tetro della morte. La morte del suo coautore naturalmente (il lavoro è scritto a quattro mani col fido Sandro Luporini), che era ben conscio di non avere più molto tempo a disposizione. Invece no, nulla di tutto questo: né epitaffio, né testamento. Io non mi sento italiano è un’elegia di toccante e raggelante attualità, premio Tenco come miglior album dell’anno, prodotto e arrangiato dal mai troppo compianto Beppe Quirici. Ad ascoltarlo oggi mette i brividi, Giorgio Gaber. Come tutti gli intellettuali e gli acutissimi osservatori del reale, rappresentava un potente anticorpo contro ogni deriva transumana e la manipolazione costante delle coscienze. Oggi di anticorpi ne possediamo sempre meno, non a caso le pandemie si diffondono perniciose nei cuori e nelle menti più che tra le cellule. Gaber ben intuiva già venti e trent’anni fa che i gangli di una società corrotta e autodistruttiva fossero appannaggio dei media e dei loro magheggi al soldo di pochi editori e di un sistema economico marcio. Non può essere casuale, pertanto, l’apertura del disco con la tagliente Il tutto è falso, brano che sembra scritto ieri e che non si perita di dipingere un mondo in cui non è più umanamente possibile riconoscersi.

Il falso è tutto quello che si sente
quello che si dice
il falso è un'illusione che ci piace
il falso è quello che credono tutti
è il racconto mascherato dei fatti
il falso è misterioso
e assai più oscuro
se è mescolato
insieme a un po' di vero
il falso è un trucco
un trucco stupendo
per non farci capire
questo nostro mondo
questo strano mondo
questo assurdo mondo
in cui tutto è falso
il falso è tutto.

Le stesse istanze manipolatorie in realtà Gaber le aveva colte già molto prima, con C’è un’aria (tratta da Io come persona, live della stagione teatrale 1993-1994) e non a caso qui ripresa, in versione da studio, con un vestito meno arioso e più moderno.

Lasciate almeno l'ignoranza
che è molto meglio della vostra idea di conoscenza
che quasi fatalmente chi ama troppo l'informazione
oltre a non sapere niente è anche più coglione.

Negli ultimi anni della vita, per citare lo stesso Gaber, in quell’ipotetico Dialogo tra un impegnato e un non so “ha vinto il non so”. Hanno vinto cioè i dubbi dell’essere, dell’appartenenza, della difficoltà a trovare una formula interpretativa del reale da sposare e in cui riconoscersi. E tale consapevolezza finiva inevitabilmente per riverberarsi sul futuro dei figli, delle nostre discendenze, sul mondo che gli si sarebbe parato innanzi. Per questo nella commovente Non insegnate ai bambini (che a Milano accompagnò il funerale) l’invito è a tenere i piccoli lontani dalla nostra cultura.

Non insegnate ai bambini
non divulgate illusioni sociali
non gli riempite il futuro
di vecchi ideali
non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all'amore il resto è niente.

L’illogica allegria e Il dilemma fanno capolino a tanti anni di distanza (i brani facevano entrambi parte del disco Pressione bassa, datato 1980). Il primo ci ricorda il piacere pervasivo e immanente che si prova immergendosi nel presente, nel qui e ora, invece di rincorrere affannosamente il domani o l’istante immediatamente successivo, in una perenna e stolida rincorsa del futuro che tanto piace all’uomo contemporaneo. Il secondo è una lode alla fedeltà di coppia in una società che aveva già allora sdoganato l’amore libero e i brividini del cuore, probabilmente anche come reazione alla famiglia piccolo borghese del passato, ipocrita e asfittica: ma la fedeltà di cui parla Gaber non è solo quella verso l’altra persona, “alle istituzioni o alle regole del buon senso antico, ma quella verso noi stessi”.
 
Se l’irresistibile blues de Il Corrotto ci riporta al signor G più ironico e corrosivo, che qui si fa beffe dell’erotismo edonistico dilagante finendo però per rimanerne lui stesso vittima (Son d’accordo col Papa / Però quella lì mi arrapa), il capolavoro musicale e interpretativo del disco sopraggiunge con La parola io. Gaber si scaglia senza mezze misure verso il monosillabo più ricorrente e tracimante dei nostri tempi, che da innocuo e inevitabile viatico evolutivo diviene a poco a poco testimonianza morbosa di un individuo sempre più borioso, vanesio e insopportabile.
 
Io sono sempre presente
son disposto a qualsiasi bassezza
per sentirmi importante
devo fare presto
esaltato da questa mania
di affermarmi a ogni costo
mi inflaziono, mi svendo
io voglio essere il centro del mondo.
io non rispetto nessuno
se mi serve posso anche far finta
di essere buono
devo dominare
sono un essere senza ideali
assetato di potere
sono io che comando
io devo essere il centro del mondo.
 
La celeberrima Io non mi sento italiano musicalmente sembra fare il verso all’inno nazionale (“di cui un po’ mi vergogno”) nel suo sfilare cialtronesco e irriverente. Un’invettiva altissima e accorata che nasce da un dolore sincero verso un certo senso di appartenenza affettato e una democrazia “che a farle i complimenti ci vuole fantasia”, non da una trasgressività fine a se stessa a guisa di rocker in pensione. Chissà cosa ne avrebbe pensato Gaber dei balli sui balconi, della retorica dell’andrà tutto bene, dell’inno nazionale con i vessilli tricolori alle finestre mentre la cattiveria sempre più serpeggiante sboccava nelle delazioni di stato e nei droni volanti su concittadini liberi e inoffensivi.
 
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza
e tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi

La chiusura del disco, lancinante, è però un inno di speranza e fede nella possibilità di un uomo migliore, che possa dare adito a un neorinascimento, facendo morire “questo nostro medioevo”, riportando l’essere umano al centro della vita e del mondo. Se ci fosse un uomo, canzone del gusto smaccatamente teatrale con all’interno un lungo monologo senza musica, era già comparsa in Gaber 1999/2000, album contenente le registrazioni della tournee di quel biennio.
 
Un uomo affascinato da uno spazio vuoto che va ancora popolato
popolato da un uomo talmente vero che non ha la presunzione di abbracciare il mondo intero
popolato da chi crede nell'individualismo ma combatte con forza qualsiasi forma di egoismo
popolato da chi odia il potere e i suoi eccessi ma che apprezza un potere esercitato su se stessi
popolato da chi ignora il passato e il futuro e che inizia la sua storia dal punto zero.
uno spazio vuoto che va ancora popolato.
 
Cosa resta di un capolavoro del genere oggi, oltre al ricordo? Oltre agli effetti terapeutici e financo taumaturgici per chi si aggrappa a una certa visione delle cose incentrata sul pensiero critico e sul dubbio, per chi rifiuta l’approdo al pensiero unico (oggi terapeuticamente corretto), per chi crede nella libertà, nell’uomo in quanto (anche) coacervo di ideali e di forze, di impulsi morali e non solo primordiali, di anima e di cuore? Cosa resta di tutto questo di fronte all’aggressione livida e ferale dello scientismo riduzionistico che si erge a nuova religione latrice della Verità unica e indiscutibile? Invero, molto poco. Se ci fosse un uomo, ma quell’uomo non c’è mai stato, non si è mai visto da quando Gaber ci ha lasciati ad ansimare in questa solitudine, oppressi dall’umano bisogno di un appiglio ma quantomai confusi nell’individuarlo. Nello scegliere quello giusto. La musica, la cultura, l’arte (e tutto il sistema educativo in genere) sono stati marginalizzati, depauperati, invisi. Non a caso, naturalmente. Oggi come allora il potere sa perfettamente che una massa non cogitante, in grado di muoversi solo per impulsi di pancia irrazionali, è la condizione ideale per dominare manipolando. Gaber lo annusava nell’aria il cambiamento. Lo coglieva in quel pubblico che una volta usciva da teatro con la voglia di discutere, di farsi domande su quanto ascoltato, schierandosi e dibattendo, mentre negli ultimi anni si mostrava sempre più compatto e unito, non più diviso, non più salutarmente dubitante. Nel riscoprire l’opera di Gaber si rinfocola la fiducia nella possibilità di un’umanità differente, di ideali antichi eppure lontanissimi: nessun seme può tuttavia germogliare a dispetto dell’humus circostante. Un uomo nuovo genera un mondo nuovo, ma ne è a sua volta il prodotto. Gaber ben lo sapeva e mai come oggi il suo lascito potrebbe fungere da grimaldello per un imminente rinascimento. Se ci fosse un uomo, appunto.  
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